Da prima gli azionisti a prima i lavoratori

E’ una svolta vera? Se lo chiedono in tanti. E’ dovuta al timore che al liberismo sfrenato si contrapponga un nazionalismo populista e demagogico ben più pericoloso di un tenue socialismo? Ai posteri l’ardua sentenza

Il professor Ernesto Paolozzi

Negli Stati Uniti d’America la lotta politica e ideologica si polarizza ogni giorno di più. Da un lato l’amministrazione Trump spinge verso orizzonti estremi sconfinanti quasi nel razzismo e nel classismo più esasperato, dall’altro autorevoli rappresentanti del Partito Democratico, tra cui due possibili presidenti Bernie Sanders e Elizabeth Warren, sdoganano il termine socialista che negli Usa fino a qualche anno fa sembrava un bestemmia. I sondaggi indicano, al contrario, che, soprattutto tra i giovani, la richiesta di socialismo di fronte alle diseguaglianze crescenti della società americana aumenta e potrebbe diventare addirittura maggioritaria.

E’ in questo contesto, probabilmente, che si può spiegare la svolta compiuta dai giganti statunitensi come la General Motors, la stessa Amazon, Jp Morgan ed altri 200 grandi multinazionali. Come dire parte cospicua del potere economico americano e, di conseguenza, mondiale. La svolta consiste nel collocare al primo posto l’etica rispetto al profitto, ossia meno interesse per gli azionisti e più interesse per la condizione dei lavoratori e del rispetto dell’ambiente. Nel Manifesto, pubblicato dal Wall Street Journal, si può leggere: “Gli americani meritano un’economia che consente a chiunque di aver successo tramite il duro lavoro e la creatività. E di condurre una vita con dignità”. Più in generale, la svolta consiste nell’abbandonare un caposaldo dell’economia turbo liberista cresciuta a dismisura in questi ultimi anni, quella del profitto come unica bussola da seguire per riconsiderare il valore sia dei lavoratori che dei consumatori i quali ritrovano finalmente centralità.

E’ una svolta vera? Se lo chiedono in tanti. E’ dovuta al timore che al liberismo sfrenato si contrapponga un nazionalismo populista e demagogico ben più pericoloso di un tenue socialismo? Ai posteri l’ardua sentenza. Altri affermano, recuperando la vecchia tradizione della lotta politica europea da Machiavelli a Hegel, da Marx a Croce, che le conquiste sociali e liberali sono appunto delle conquiste, che si guadagnano attraverso la lotta sociale, a volte anche dura, e non per graziosa elargizione dei ricchi e potenti. Questa interpretazione è certamente degna di nota. Ma solo i fatti, l’andamento della storia, potrà confermarlo o meno.

Mi permetto di dire, avendo scritto recentemente un volume sull’argomento del lavoro e delle diseguaglianze, che è comunque un bene che si torni a discutere di tale grande questione che negli ultimi anni abbiamo accantonato, vorrei dire stupidamente accantonato. Se questi problemi non si affrontano con le riforme, avrebbe detto una vecchio grande politico italiano, prima o poi arrivano le rivoluzioni. E le rivoluzioni si sa come cominciano e non si sa come finiscono.

Vorrei ricordare in conclusione la svolta compiuta da una grande azienda a guida italiana, Luxottica di Leonardo Del Vecchio, che ha assunto 1500 giovani a tempo indeterminato abbassando, a parità di salario, l’orario lavorativo (pare che per 5 mesi all’anni si lavorerà meno tempo). Possiamo dire a questo punto che, ancora una volta, come accade da decenni, l’economia precede la politica. La politica affanna e insegue, perdendosi in polemiche da talk show. Non è affatto un bene perché, di questo passo, si rischia una crisi di sistema, come ha recentemente ammonito la Conferenza Episcopale italiana (Cei), dalla quale difficilmente si uscirà senza lacrime e sangue. Ma la speranza è l’ultima a morire. 

Ernesto Paolozzi

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