Si sparge il virus delle fake news

Il problema non è il mezzo. E non lo sarà mai. Almeno quando si parla di fake news. Il problema è di chi avalla determinate storielle e non dovrebbe farlo, perché del mezzo ha una visione distorta che chissà quale esperto di marketing ha venduto.
Perché mentre si racimola qualche click, il giornalismo inesorabilmente diventa sempre più una parodia di sé stesso. Lo dicevo anni addietro quando il fenomeno delle bufale si chiamava ancora “click-baiting”, pesca di click. Lo dicevo ai seminari, spiegando che chi ci ha affondato appieno le mani per una manciata di visualizzazioni avrebbe pagato caro lo scotto della credibilità che via via si sgretolava.

La lezione però non è bastata a questi giornali che entrano ed escono dallo stato di crisi con la facilità con cui io entro e esco dalla cucina di casa mia quando sono in preda ad attacchi di fame. Il Coronavirus orientale è un’occasione troppo ghiotta per non offrire il peggio di sé. Ed è così che ancora una volta l’intero comparto – a causa di una parte sostanziosa dello stesso – esce con le ossa rotte.

Partiamo dalla giovane Kimi0611 – questo il suo profilo Facebook – che è davvero una fanatica del suo cagnolino. Al punto tale da raccontare una storia in cui al cucciolo viene additata la responsabilità di aver mangiato il suo passaporto, accuratamente ridotto a brandelli in una foto accanto al cucciolo. E di averla salvata da un imminente viaggio a Wuhan. Una storiella da locanda, in pratica, che fa acqua da tutte le parti. Ma a cui è stata data valenza di notizia, quando valenti testate nazionali per rimpolpare il loro comparto web anziché investire sulla Seo decidono di scopiazzare i tabloid stranieri.

Mentre quella del cagnolino può sembrare anche un’ingenua storia da raccontare – ingenuissima mentre il contagio diventa mondiale e gli epidemiologi sembrano brancolare nel buio con cadaveri ancora caldi – ben diversa è la presa di posizione che strizza gli occhi a tutti i razzismi di questo Paese di un noto giornale che fa ricadere la colpa dell’epidemia sui “cinesi che mangiano i pipistrelli”. Una fesseria partorita probabilmente da un simpaticone in Brasile e che ha assunto, tramite una certa viralità, valore di verità assoluta per chi ne doveva fare facile propaganda.

Altri media, volenterosi di raccontare la fine del mondo come nei film catastrofici, si sono invece attaccati a una libera reinterpretazione di un articolo del Washington Times (per chi si occupa di fact-checking, il Washington Times non è nuovo a queste situazioni): il Coronavirus cinese sarebbe nato in un laboratorio in un contesto di armi biologiche (armi difettose, volendo dirla tutta, per il rapporto contagio–morte). Fact-checker di tutto il mondo hanno smentito in pochissimo tempo la notizia, mentre le grandi redazioni nostrane… beh, no. Non l’hanno voluto fare, e non l’hanno fatto.

Intanto però la gente si preoccupa, cerca informazioni e non sempre ha gli strumenti per decidere su internet cosa è vero e cosa invece merita un minimo di diffidenza. Parliamo della generazione nata e cresciuta con l’autorevole messaggio monodirezionale della tv, per cui il media in quanto tale porta con sé la verità. E se proprio la classe giornalistica viene meno al suo compito, quello di formare l’opinione pubblica, non sorprendiamoci se poi sulle bacheche Facebook vediamo rimbalzare finti messaggi Whatsapp che invitano a stare lontani dai ristoranti cinesi, in una nuova ondata di sinofobia che non si vedeva dai tempi in cui eravamo convinti ci servissero i gatti.

di Enrico Parolisi

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