L’intervista. Il pm D’Alessio: “Scarcerazioni? Nuova linfa per i clan”

"Rischiamo di dimenticare quanto sia pericolosa"

NAPOLI – Dieci anni in Dda, a combattere la mafia casertana. Alessandro D’Alessio, sostituto procuratore a Napoli, la conosce bene. Sa perfettamente quanto la criminalità organizzata possa far male al territorio. Ma ora, tra pandemia, polemiche e caso scarcerazioni, c’è il rischio che venga sottovalutata: “Ho l’impressione che si stia perdendo il senso del fenomeno mafioso”.

Durante l’emergenza sanitaria, tra boss e narcos, sono stati concessi i domiciliari a 376 detenuti. Ed altri 436 ora chiedono di uscire.

La presenza sul territorio di persone legate ai clan, che hanno capacità organizzative e direttive, è inquietante. C’è il pericolo che dia nuova linfa alle organizzazioni.

Questo è l’effetto potenziale. Veniamo alle cause.

La situazione carceraria, in Italia, è delicata. Ma è anche vero che la nazione ha proprio nella mafia, purtroppo, un suo fenomeno peculiare. Serve trovare un equilibro tra due esigenze fondamentali: da un lato le garanzie da dare ai detenuti, dall’altro il contrasto alla criminalità. Ma non deve essere un meccanismo burocratico.

Si riferisce alle scarcerazioni dei boss?

A volte, ma è un parere personale, sono stati usati criteri astratti. Dire semplicemente che una persona, già afflitta da varie patologie, in carcere può contrarre il Covid-19, ammalarsi e morire è una motivazione astratta. Il giudice deve decidere sapendo quella persona chi è e cosa fa. Ed è una premessa fondamentale, che va valutata con attenzione. Deve sapere, prima di concedere i domiciliari, se c’è la possibilità di trasferirlo in un altro centro penitenziario dove possa essere curato in sicurezza. Con il nuovo decreto, gli organi di procura forniranno informazioni sul soggetto che la Sorveglianza è chiamata ad esaminare. Ognuno deve fare la propria parte.

Serve più rigidità nelle decisioni?

Bisogna tener conto che la mafia è un fenomeno di cultura, sociale. Ed il mafioso difficilmente nella vita fa altro dall’essere mafioso. Metterlo fuori significa dargli la possibilità di ripristinare i collegamenti criminali che aveva attivato in precedenza, prima dell’arresto. Ma è pur vero che il carcere non deve diventare tortura. La salute del detenuto va tutelate.

Ha parlato del nuovo decreto, emesso dopo l’allarme scarcerazioni. C’è chi ha polemizzato sostenendo che gli inquirenti vogliono incidere nelle decisione della Sorveglianza

No. Ripeto, è semplicemente opportuno che il giudice conosca la storia di quella persona.

In queste ore è iniziata a circolare la bozza di un altro decreto che il ministro Alfonso Bonafede vuole usare, diciamo così, per tamponare, durante la pandemia, la fuoriuscita di boss. Nel documento viene chiesto al giudice che aveva scarcerato il mafioso di valutare periodicamente le sue condizioni di salute, quelle ambientali e degli istituti carcerari.

Bisogna evitare le ‘leggi manifesto’, finalizzate esclusivamente ad innescare sentimenti nelle persone. Devono essere concrete. Già adesso se sottopongo un soggetto alla detenzione domiciliare perché è in condizioni di incompatibilità con il carcere, qualora la sua salute dovesse migliore automaticamente torna in cella.

Sinergia tra Sorveglianza e procura, decisioni ponderate e più controlli: sono le soluzioni messe in campo, finora, per evitare la seconda ondata di scarcerazioni. Ma potenziare le strutture penitenziarie non sarebbe una mossa più efficace?

Quando è scoppiata la pandemia, l’Italia come ha reagito? Raddoppiando il numero di posti in terapia intensive. Serviva fare questo anche con le carceri. E’ un discorso che potrebbe sembrare populista. Ma ritengo che costruire nuovi penitenziari sia la risposta migliore. Bisogna fare i conti, però, con la realtà concreta. Per anni siamo andati avanti con le riforme a costo zero.

Tra emergenza sanitaria, decreti e battibecchi vari, la mafia, con o senza scarcerazioni, continua ad agire…

L’Italia è il paese dei corsi e ricorsi storici. Il sentore che si stia perdendo di nuovo il senso del fenomeno mafioso si percepiva già prima della pandemia: era palpabile, ad esempio, con la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso di Marcello Viola. Non bisogna abbassare la guardia. La mafia è il male, è come il Covid, come il cancro. Quando si devono fare delle scelte che sembrano non funzionali alla lotta contro quel fenomeno, vorrei che venissero prese sapendo bene cosa si ha di fronte.

Stiamo dimenticando quanto pericolosa sia la mafia?

Si è inabissata. E’ una sua strategia. All’ala militare lo Stato è riuscito ad infliggere colpi duri in termini di arresti e confische. Adesso si è trasformata in un’organizzazione imprenditoriale. Quando una ditta vicina al clan si aggiudica un appalto, corrompendo un politico o un funzionario, compie un’azione che si confonde nel tessuto sociale. La sua presenza è meno percepibile. Tutti ce ne accorgiamo, invece, se uccide qualcuno.

Contromisure?

Serve attenzione culturale e sociale. E la reazione di repressione deve essere professionale. Gli inquirenti devono avere la capacità di conoscere in anticipo quelli che Raffaello Magi chiama ‘elementi indicatori’.

Torniamo alla questione scarcerazioni. Mentre a molti boss venivano concessi i domiciliari, mentre si continuava (e si continua) a lottare contro il coronavirus, abbiamo assistito ad uno scontro inusuale, in diretta tv, tra Alfonso Bonafede e il magistrato Nino Di Matteo, componente del Csm

Per quanto è possibile bisogna evitare polemiche tra organi dello Stato. Se lo facciamo disorientiamo i cittadini. In Italia, per varie ragioni, non abbiamo avuto mai la possibilità di fare una riflessione seria ed onesta sulla giustizia. E’ stato sempre un terreno di scontro. Quando si creano tensioni tra poteri dello Stato o autorevoli rappresentanti delle istituzioni, diventa più difficile chiedere ai cittadini di collaborare con lo Stato medesimo denunciando, ad esempio, le vessazioni cui si è sottoposti.

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