L’Europa che non c’è

Il Parlamento Europeo (photo LaPresse)

Sono trascorsi poco più di ottant’anni dal giorno in cui Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrissero il “Manifesto di Ventotene”, primo documento politico in cui si prefigurava l’ideale di un’Europa Unita. Correva l’anno 1941. La seconda guerra mondiale era nel vivo e sullo scoglio dell’isola pontina, dove i due pensatori liberali erano stati confinati dal Fascismo, cominciò a prendere vita un disegno politico che, nonostante tutti gli sforzi compiuti da allora e nel corso degli anni successivi, a tutt’oggi, non è stato ancora realizzato: quello di un’unica nazione oppure di una federazione degli Stati uniti d’Europa. Un disegno che, al suo compimento, avrebbe dato vita ad un potenza politica, economica ed anche militare, in grado di reggersi da sola e di fronteggiare l’invadenza dei mercati americani ed asiatici. Sotto la spinta lungimirante di grandi uomini politici come l’italiano Alcide De Gasperi, il francese Robert Schumann ed il tedesco Konrad Adenauer, si cominciò, nel 1951, a tessere intese di natura commerciale come la Ceca (la Comunità europea del carbone e dell’acciaio) fino a giungere, nel 1957, al Trattato di Roma che vide la nascita della Comunità economica europea. Con questo patto anche l’energia atomica fu inclusa tra i beni prodotti dai singoli Stati che potevano circolare liberamente. Insomma l’intuizione e la massima di un grande economista del calibro di Benjamin Constant – “sui confini ove passano le merci non transiteranno cannoni” – aveva finalmente iniziato a muovere i primi, concreti passi. E tuttavia quel processo di unificazione che sembrava procedere così speditamente, trovò intralci insuperabili negli ostacoli che gli egoismi del nazionalismo frapposero, bloccandone il processo virtuoso. La grandeur francese teorizzata da Charles De Gaulle, l’albagia autosufficiente degli Inglesi (volta a protezione dell’impero del Commonwealth), la tiepidezza dei governi tedesco ed italiano (più soggetti all’influenza statunitense), si mostrarono insormontabili per andare oltre le semplici intese economiche e commerciali. Così si preferì proseguire lungo quell’unico canale d’intesa che riguardava soprattutto l’integrazione delle economie e giammai quella dell’unità politica. La moneta unica, una sola banca centrale, la costituzione di un Parlamento e di un esecutivo sovranazionale, oltre a centinaia di progetti di sviluppo e finanziamenti di vasto respiro continentali, non sono bastati a fare passi in avanti verso una reale fusione federale. Vero è che il numero dei partecipanti all’Unione Europea è di gran lunga aumentato con l’adesione degli stati slavi, scandinavi, baltici e di alcuni di quelli che prima orbitavano, ovvero soggiacevano, intorno alla Russia comunista. Molte di queste adesioni hanno consentito ai paesi dell’ex blocco sovietico di beneficiare di risorse e di aiuti economici che sono stati posti a base del rilancio delle economie in un libero mercato di concorrenza. Le istituzioni politiche di quei Paesi hanno iniziato ad ispirarsi a quelle dei regimi occidentali rinforzando, in tal modo, la propria connotazione liberale, beneficiando della ricostruzione di moderne infrastrutture e andando alla conquista di fette di mercato prima precluse dalla “cortina di ferro”. Anche questa cospicua integrazione, tuttavia, non ha smosso granché sotto il profilo dell’avanzamento unitario. Anzi, nel caso di taluni Stati come l’Ungheria e la Polonia, si sono accesi forti rigurgiti sovranisti con il rilancio di identità nazionali che hanno trovato sponda anche in Austria e finanche in Italia. Il cammino verso la “fusione” più spinta, ad oggi, resta fermo in attesa non si capisce bene di quale prospettiva. Neanche sotto il profilo militare si è potuto adottare un sistema di difesa unico ancorché gli investimenti europei in quel ramo specifico siano risultati di maggiore entità rispetto alla Russia e addirittura concorrenziali con quelli della Cina. Diciamocela tutta: l’ombrello a stelle e strisce targato Nato continua a risultare comodo e rassicurante! Eppure non siamo più nel dopoguerra laddove la divisione del mondo imponeva una logica di blocchi contrapposti. Quella logica, nel caso dei paesi europei, imponeva l’adesione al patto atlantico sia come presidio di difesa militare, sia come scelta di campo nel mondo occidentale e liberale. Fattori ormai scomparsi con la caduta del muro di Berlino e la definitiva sconfitta del socialismo. La crisi ucraina che lascia il mondo col fiato sospeso, mette a nudo l’impreparazione dell’Europa come forza di interlocuzione autosufficiente sul piano politico diplomatico e militare. Ma mette anche in risalto che l’Inghilterra, uscita dai ranghi Ue con la Brexit, dialoga da sola e che la restante parte aspetta che contingenti militari statunitensi si schierino sul campo. Ancora una volta lo Zio Sam è chiamato a soccorrere un mondo impotente e disorganizzato. Insomma a colmare il vuoto di un’Europa che proprio non c’è.

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