Il 23 marzo del 1992 moriva Frederik Von Hayek, uno dei più grandi economisti di scuola liberale dei nostri tempi (fu premio Nobel nel 1974). Un suo memorabile lavoro, intitolato “La via della schiavitù”, nella formula ridotta del “Reader’s Digest”, vendette oltre un milione di copie solo negli Stati Uniti. Il lavoro spiega, in buona sostanza, come i sistemi totalitari che pretendono di dettare il futuro agli individui, sia pure nel presupposto di realizzare il loro bene, siano di fatto liberticidi e fallaci. “La via della schiavitù” fu scritto “nei ritagli di tempo”, tra il 1940 ed il 1943 (Hayek, in quel periodo, insegnava alla London School of Economics). Erano quelli gli anni della seconda guerra mondiale, un conflitto rovinoso, che portò ad una forte centralizzazione della vita economica perché ogni risorsa doveva essere messa al servizio dello sforzo bellico. Questo stato di cose avvalorava l’idea che il relativo successo della pianificazione in tempo di guerra, raccomandasse di poterla usare anche in tempo di pace. Ma così non era ed in ogni caso si trattava di subordinare ogni decisione di produzione ad un singolo fine: la vittoria. Non accade così in tempo di pace, perché in una società libera, i fini e gli scopi che ciascun individuo si pone sono i più diversi, al pari delle persone che li coltivano. Hayek pensava che fosse difficile preservare la libertà individuale, in un mondo nel quale era lo Stato a dire cosa si doveva produrre e cosa consumare. In ciò, d’altronde, si nasconde il vero problema del socialismo laddove esso, per poter pianificare l’economia, presuppone che le autorità debbano imporre alla popolazione un preciso codice di valori. Ordinare la società dall’alto significa, dunque, scegliere quali ambizioni, bisogni e desideri meritano di essere realizzati e quali no. “La via della schiavitù” fu un piccolo caso letterario che generò anche incomprensioni e pregiudizi che tuttora rendono possibile agli statalisti ed ai socialisti di mistificare le finalità delle libertà economiche. Si disse che Hayek sosteneva che ogni genere d’intervento pubblico avrebbe innescato un processo destinato a finire con l’abbraccio di un modello totalitario. Ma così non era. La critica all’intervento pubblico era, infatti, di ben altra natura e prospettiva, ovvero riguardava la rottura del nesso etico che intercorre tra ricompensa e merito, la necessità di sopprimere le libertà civili ed economiche per rendere possibile l’imperio della programmazione statale. E torna alla mente quello che sono diventate la Cina e la Russia oggi, ove vige la “democratura”, paradossale sintesi tra democrazie e dittatura, libertà economiche e libero mercato di concorrenza, ma negazione delle libertà politiche e civili. Insomma la libertà di arricchirsi e di produrre ricchezza ma non quella di poter cambiare il governo e le leggi attraverso un processo democratico. Non è roba da poco quello che questa sintesi tra capitalismo e socialismo statale contiene, ed è la dimostrazione che la libertà economica non basta per realizzare la democrazia politica e, viceversa non esiste libertà politica senza libertà di poter liberamente intraprendere. Coloro che accusano il mercato di concorrenza di non avere un’anima sociale né altro interesse che il guadagno, non hanno mai colto la stessa connessione tra le due diverse libertà sulle quali si fonda la “big society”, la società aperta e libera. Ritornando alle libertà economiche, per l’economista austriaco nessuno ha a disposizione “dati” a sufficienza per plasmare la società nel modo migliore, anche perché questi “dati” cambiano continuamente, dal momento che dipendono da preferenze, gusti e scelte dei singoli. Tra questi anche la moltitudine dei beni voluttuari che il mercato offre ai consumatori tenendo il passo della modernità tecnologica. La sua lezione più duratura è che non c’è scienza della società che possa davvero, con sicurezza, determinarne il futuro. Una visiona aperta e lungimirante quella di Hayek, che spiega perché, in seguito, tutti gli sforzi di politici ed economisti di trovare una terza via tra libero mercato di concorrenza e programmazione statale (leggi monopoli), siano miseramente falliti. Un’ultima teoria, utilizzata per alimentare pregiudizi ed aggettivazioni spregiative verso il liberalismo ed il liberismo, smontata dallo studio del grande economista, è quella che il profitto produca profittatori ovvero una classe sociale che vive di rendita ed esclusivamente per il danaro. Nulla di più sbagliato. La concorrenza, infatti, è una competizione che viene svolta nell’interesse del compratore, non del profittatore, offrendo ai mercati la migliore merce al più basso prezzo per vincere la sfida con i competitor. Immaginare che lo Stato possa interpretare e realizzare in un regime di libertà gli scopi e gli interessi dei cittadini è una strada che porta alla schiavitù dei medesimi.
*già parlamentare
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