Un nuovo Leviatano

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

Quando il potere diventa dominio sulla vita e sulle libertà dei singoli individui, lo Stato può essere considerato un Leviatano, il voracissimo mostro acquatico citato nella Bibbia. Esso simboleggia il potere assoluto dal volto inumano, che espropria i governati della disponibilità e dei fini della loro stessa esistenza. Molti sono i casi in cui tale condizione può verificarsi soprattutto quando lo Stato diventa tirannico al punto tale da trasformarsi da ente liberamente scelto dalla comunità umana (per garantire la civile e pacifica convivenza) in uno strumento di oppressione illiberale. E’ un Leviatano nel momento in cui pretende di stabilire quali e quanti debbano essere gli esiti della vita di ciascuno di noi, “pilotando” i bisogni ed i desideri che ciascuno di noi cerca nell’affannosa corsa verso il raggiungimento della felicità.

Non sono pochi coloro che non si curano del potere statale e di quanto quest’ultimo finisca per essere pervasivo e decisivo, di come le leggi interferiscano nella vita quotidiana di ciascun individuo. Di converso molti sono quelli che concedono allo Stato ogni sorta di opzione e di programmazione della vita sociale, pur di sentirsi garantiti nella sicurezza personale. In tal senso viene concessa ogni sorta di potere in nome di una rassicurante uguaglianza, unitamente ad un’uniformità di trattamento che viene malamente intesa come espressione di giustizia sociale.

La vita tranquilla e la pancia piena si rivelano, insomma, ottimi deterrenti capaci di placare ogni anelito di libertà e di autodeterminazione, trasformando il contratto sociale in una cessione di sovranità. In tempi come quelli che stiamo vivendo, opulenti e disincantati sul piano dei valori e delle idee, questo baratto non dichiarato preoccupa poche persone, la maggioranza non si cura affatto di aggiungere una gravida postilla al patto ideale che pure contraggono con chi le governa. Sicurezza in cambio di libertà appare un vantaggioso scambio per quanti declinano la libertà senza la responsabilità, usandola come un’opzione per soddisfare i gusti ed i bisogni materiali e merceologici che il libero mercato assicura.

Quando invece per libertà si intende la capacità di poter determinare gli scopi esistenziali di una vita di cui si è consapevoli e gestori, allora la cessione di sovranità mostra tutti i propri limiti. Se la massa fosse stata più attenta non sarebbe passata sotto silenzio l’approvazione, da parte della Camera dei Deputati, della legge sul cosiddetto “ergastolo ostativo”. Una norma che inasprisce le condanne per coloro che hanno commesso gravi reati portando la pena massima irrogata al carcere a vita, se i colpevoli non si mostrano disponibili a collaborare con la giustizia.

Insomma: un’estensione, un ulteriore propaggine della legislazione speciale che disciplina l’uso dei pentiti come strumento inquisitorio per svolgere l’azione penale. In altre parole, per un delitto che prima prevedeva il massimo della pena determinato, mettiamo, in trent’anni, ecco che questa si trasforma nel “fine pena mai” ovvero si lasciano i rei ai rigori del carcere duro finché non muoiono. Lo Stato diventa in tal modo il proprietario della vita del recluso fino a che quest’ultimo non consuma la propria vita biologica. Appare in tal modo il volto crudele del Leviatano che si appropria dell’esistenza non solo sociale del condannato, infliggendogli, unitamente ai rigori del regime carcerario conosciuto come “41 bis”, anche la condanna biologica che accompagna il derelitto in una segregazione perpetua fino alla scomparsa fisica.

Il tutto con buona pace del principio costituzionale della pena inflitta per il recupero del colpevole e del dettato di infliggere allo stesso una condanna che non ne cancelli i diritti fondamentali come essere umano, ovvero il diritto di tornare a morire da uomo libero (una volta scontata la pena), solo perché non si è prestato alla collaborazione con gli inquirenti. La valutazione della gravità del reato non avviene in via definitiva ne è determinata dal danno che quella condotta illecita ha procurato alla società, quanto da una valutazione del comportamento del reo.

Cosa distingua l’ergastolo ostativo dalla pena di morte non è semplice da determinare. Lo stesso Stato che non irroga la condanna capitale perché verrebbe meno il principio che non possa macchiarsi esso stesso di quel reato, si arroga poi il diritto di condannare un uomo alla morte civile espropriandolo di ogni speranza e di ogni redenzione. E’ tale e tanta la voglia di sicurezza e di protezione del probo cittadino che si arriva a derogare ai più elementari principi di “pietas” umana e di tutela della vita, ancorché il reo sia macchiato di gravi di colpe. L’ossequio alle leggi ha portato gli esseri umani a liberarsi degli abusi del potere assoluto ed ai soprusi della tortura e dell’inquisizione. Ritornarvi in modo surrettizio con una norma è un paradosso francamente insopportabile.

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