Esiste ancora una “questione meridionale”? Si, e viene denunciata da precisi indicatori macroeconomici che non solo amplificano la tesi politica così come conosciuta, ma che addirittura la radicalizzano. Concentrandoci solo su alcuni fattori, per brevità di analisi, se ne vogliono qui portare alla luce almeno due: istituzioni e spesa pubblica. Si scrive che al Sud manca una classe dirigente degna di questo nome, pertanto difetta un agire pubblico, collettivo, in grado di prospettare le opportunità di una società. Le istituzioni, quindi, verrebbero meno a essere l’elemento principale, se non addirittura esclusivo, per influenzare la società, gli scambi, le scelte economiche e politiche.
Secondo l’economista americano North, le istituzioni “pervengono a influenzare le performance economiche”. Queste, quindi, condizionano il comportamento e le scelte di mercato. Una loro debolezza o una loro marcata inconsistenza non fanno altro che indebolire e/o rendere insicuri i rapporti sociali, ovvero non concorrono a creare interessi collettivi, agire comune, per soddisfare gruppi e/o comunità, ma piuttosto tendono a rappresentare singoli cittadini.
Per incidere sul punto, le istituzioni meridionali non concorrerebbero a creare regole formali precise, condivise e rispettate. Elementi, si badi bene, che solo lo Stato, il pubblico, possono assicurare. Sempre secondo North, le istituzioni non sempre sono create per essere socialmente efficienti ma, talvolta, hanno il preciso compito di soddisfare gli interessi di chi possiede il potere contrattuale di imporre nuove regole. Il Mezzogiorno parrebbe produrre “istituzioni estrattive”, ovvero organismi pubblici che soddisfano interessi di una ristretta classe sociale, una élite che agisce sulla base dei propri interessi, sacrificando la crescita generale della società.
Per quanto riguarda la spesa pubblica, intesa quale principale leva per il sostegno al reddito e alla domanda interna, il Sud è storicamente penalizzato rispetto al centro-nord. Volendo analizzare solo il primo ventennio del nuovo secolo, in relazione alla sola spesa per abitante e in conto capitale nel Mezzogiorno, ci troviamo di fronte ad un colossale imbroglio che aumenta le distanze tra Nord e Sud, a tutto svantaggio di quest’ultimo. Questa non è una ragione, è un fatto!
Nel primo decennio del 2000, la spesa per abitante nel Mezzogiorno era di 10.200 euro, mentre nel Centro-Nord era di 14.300 euro. Continuando, la spesa in conto capitale destinata al Sud è passata dal 36,5% della spesa nazionale nel 2001, al 30,2% nel 2012. In 10 anni lo Stato disinveste nel meridione e rinforza i legami economici dell’altra parte dell’Italia. Rafforza i rapporti socio-economici del Nord e affievolisce vistosamente l’investimento nelle regioni del Mezzogiorno. Questa non è un’opinione, ma una incontrovertibile quanto amara realtà.
In questo preciso momento storico, a fronte di un intero paese indebitato, con un prodotto interno lordo che non mostra segni di ricchezza dell’economia italiana, con una precarietà sociale che aumenta, mostrando una crescita di soli rapporti lavorativi instabili e malpagati, il Sud ha tutto da perdere e in ogni caso non potrà mai riuscire a recuperare il gap sociale ed economico con il Nord, in questa fase. Anche perché, nel frattempo, non ha attivato processi di sviluppo cosiddetti endogeni, cioè quelle forze all’interno di sé stesso capaci di creare condizioni strutturali non dico di superamento dei differenziali nei confronti del Centro-Nord, ma nemmeno di “resistenza” in questo quadro macroeconomico desolante.
L’intervento economico offerto dalla Ue, spesso immaginato come l’elemento salvifico per queste terre, deve saper essere indirizzato almeno verso dette mancanze. Non è facile, ma cominciare da qui significherebbe guardare al Sud come una florida prospettiva per l’Italia, senza chiedere a quest’ultimo nuovi quanto inutili “sacrifici” istituzionali e politici.
Ovviamente a crederci deve essere innanzitutto il Sud.