Tutti al mare?

Vincenzo D'Anna

Oggi si vota. Un evento che in Italia ricorre frequentemente ancorché la percentuale di coloro che esercitano il diritto di farlo sia poco più che superiore al 60 per cento degli aventi diritto. Le punte massime dell’affluenza si raggiungono per le competizioni amministrative, laddove la pletora di candidati in lizza opera una capillare azione di sensibilizzazione e di propaganda, oltre al fatto che l’evento “locale” attira sempre di più l’elettore. I minimi storici si toccano per i quesiti referendari, allorquando le percentuali dei votanti non superano quasi mai il quorum stabilito della metà più uno degli aventi diritto. Eppure il referendum consente al popolo di potersi esprimere direttamente su particolari tematiche legislative e, quindi, gli conferisce la possibilità di poter incidere sulle scelte fatte dal Parlamento. Quest’ultimo, vituperato e criminalizzato come non mai nella seconda repubblica, vede così confermato il proprio operato dall’indifferenza e dall’astensione di quegli stessi detrattori e contestatori della democrazia rappresentativa e parlamentare. Forse è vero che i quesiti referendari sono spesso formulati in maniera poco comprensibile e che si è fatto sovente abuso di questa modalità di interpello diretto della volontà popolare, resta però incomprensibile come mai gli italiani, dopo aver criticato il Parlamento e i parlamentari, abbiano poi timore di cambiare le cose attraverso la democrazia diretta che spesso loro stessi hanno invocato. Se dovessimo descrivere questo paradossale, contraddittorio, comportamento potremmo condensarlo in un famoso epitaffio: “Ogni ingiustizia ci offende solo quando non ci procura un personale tornaconto”, che il saggista e moralista francese Luc de Clapiers, marchese di Vauvenargues, ebbe a coniare. In soldoni, siamo un popolo con un senso morale variabile, molto sensibile se una legge, oppure una questione sociale, può favorirci oppure danneggiarci e completamente disinteressati se questa non ci tocca. Se tale definizione ci calza a pennello, si può ben dire che la questione referendaria non dipende dalla spesso invocata volontà di poter decidere direttamente come popolo sovrano, ma dallo specifico interesse che il referendum di turno riesce a suscitare o meno, in noi. Contrariamente a quanto i politologi ed i sociologi affermano, gli abitanti dello Stivale non vengono conviti a votare  dalla modalità con cui possono decidere, direttamente oppure indirettamente attraverso il Parlamento, quanto dall’impatto che l’argomento ha sulle proprie vite. Per quanto i contestatori del cosiddetto “sistema” istituzionale abbiano trovato, sui social network, una cassa di risonanza di ampia dimensione per condizionare la formazione dell’opinione pubblica, alla fine la valutazione personale, riflessiva sul proprio vissuto quotidiano, risulta essenziale per far loro decidere se recarsi o no, alle urne. In poche parole: è “l’opinione conveniente ” a decidere le sorti di una tornata elettorale. D’altronde altre opinioni convenienti  hanno caratterizzato  e deciso l’esito delle elezioni pregresse. Basti citare l’abolizione dell’Imu, di berlusconiana memoria, e il reddito di cittadinanza con il quale i pentastellati hanno raccolto un terzo dei suffragi alle ultime politiche. Così per le eventuali opinioni negative, quelle che, suscitando timori e perplessità, hanno indotto la gente a mobilitarsi e ad esprimersi attraverso il voto. In questo caso basti pensare alle opinioni sugli immigrati collegate alla sicurezza personale e sociale, e ai referendum costituzionali. L’ultimo proposto da Matteo Renzi si trasformò in un referendum contro la persona che pagò anche lo scotto della riforma semi-meritocratica sulla scuola, trasformando i docenti in indiavolati propagandisti del No. Su questa base logica la domanda da porsi per quanto concerne il referendum sulla Giustizia è semplicemente questa: gli italiani hanno paura del potere concesso ai magistrati e temono gli  abusi che questi commettono in ragione del fatto che sono immuni da ogni responsabilità? Per quanto eclatanti e numerosi siano stati gli errori dei togati e per quanto centinaia di migliaia di cittadini siano stati incarcerati e vilipesi per poi risultare estranei ai fatti a loro addebitati, la percezione del pericolo personale per fatti giudiziari è tuttora scarsa. Siamo un popolo che sviluppa odio e rancore sociale verso il potere, ancorché spesso clienti  beneficiati dal medesimo, e come tale guardiamo al potere dei giudici come un’arma che colpisce solo i potenti e i corrotti. Chiediamoci però: quanti moralisti in servizio permanente effettivo pagano le tasse per quello che dovrebbero? Quanti hanno bellamente violato la legge per quello che potevano solo perché gli conveniva? Molti certamente, ma li accomuna di più l’odio e l’invidia verso chi comanda che la resipiscenza di una cattiva coscienza. Allora temo che in tanti andranno al mare perché si sentono  i più furbi oppure immacolati, per auto virtù referenziata. E che gli altri se la sbrighino coi tormenti e le pene di una giustizia feroce ed ingiusta!!.

*già parlamentare 

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