I nuovi Gattopardi?

“Adesso mi spiegherò, Chevally: Le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto”. Così si rivolgeva il Principe di Salina, don Fabrizio, al segretario del Prefetto di Girgenti, Aimone Chevalley di Monterzuolo (il funzionario piemontese che lo aveva incontrato per offrirgli il laticlavio senatoriale nel nuovo Regno Piemontese), nel “Gattopardo”, celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa. Parole, le sue, che avevano colto in pieno il segno di quei tempi rivoluzionari come un cambio di regime e la sostituzione di un re con un altro, nella continuità di una storia immutabile per il Sud. Don Fabrizio affermava di non credere nelle future e progressive sorti che il nuovo Stato avrebbe portato con la democrazia, la pubblica amministrazione e le innovative e annunciate promesse. E non credeva neanche nelle istituzioni politiche, in quanto tali, che avrebbero dovuto governare la neonata Italia, nei pregi del governo eletto a suffragio popolare che andava a sostituirsi all’assolutismo del vecchio regno Borbonico. Quest’ultimo frettolosamente e fraudolentemente descritto come forma ottusa e retrograda di amministrazione del popolo. Gli aristocratici avrebbero dovuto cedere spazio ai borghesi, alla loro capacità di intraprendere e di arricchirsi. In realtà i nobili sarebbero rimasti ancora, ma non a lungo, in sella a rappresentare la spina dorsale del potere monarchico. In sintesi: il protagonista non credeva nel “cambiamento” e disdegnava la nomina a senatore del nuovo regno perché gli mancava la capacità di illudere se stesso sul futuro, requisito indispensabile per poter illudere gli altri. Abbiamo oggi di che poter trovare giovamento dal ricordo di questi profondi e presaghi pensieri sulla natura del popolo italiano e le metamorfosi storiche e trasformistiche che hanno sempre costellato la vita delle nostre istituzioni? Potremmo trovare in quello scetticismo aristocratico e nell’acume di un intelletto non comune, una spiegazione alle cose che si susseguono sulle tavole del teatro politico di casa nostra, nel tempo in cui si dice si sia aperta un’era nuova e al governo siano giunti gli epigoni di una forza che non aveva mai governato finora? Basteranno la pregressa estraneità alla gestione del potere di questo nuovo ceto dirigente, le cui radici storiche affondano nella destra post missina, a consentire un cambio di mentalità e di sistema che operi una radicale riforma di mentalità e di programmi? Non sono questi degli interrogativi retorici, né riflessioni filosofiche prive di ricadute concrete. Sono invece pensieri intorno ai quali la stagione del vero riformismo si giocherà l’ennesima decisiva partita. Il popolo, sempre un passo oltre la politica e due lontano dall’accollarsi una qualche responsabilità sulla qualità degli eletti, pare abbia voluto mandare a Palazzo Chigi una donna intraprendente, Giorgia Meloni che, avendo fatto militanza ideale, esalta oggi l’agire politico come toccasana contro i trasformismi parlamentari ed i partiti di plastica che vanno di moda in questi tempi. Quale classe dirigente si porta dietro questa leader e che tipo di governo ci proporrà realmente per uscire dalla crisi del sistema e da quella economica che ci affligge? I primi mesi del suo mandato sono in chiaroscuro; alcune buone intenzioni paiono di stampo liberale ma molte opere si profilano in continuità col passato. E’ certo presto per giudicare, ma alcuni atti sono eloquenti per farci temere che il Principe di Salina avesse ragione quando diceva che bisogna “cambiare tutto perché nulla cambi”. E se in politica i mezzi utilizzati depongono per i reconditi fini, aver balbettato sul più importante dei provvedimenti fin qui assunti dal governo di centrodestra, ovvero la legge di Bilancio, per poi giungere ad attuare il vecchio e logoro artifizio di porre la fiducia, annullando tutti gli emendamenti e la discussione parlamentare, depone per il vecchio, non per il nuovo. Se l’esecutivo continua a sfornare decreti soffocando quelle di iniziativa parlamentare, chiamando gli eletti del popolo solo a ratificare, non si scorgono differenze rispetto all’avvilimento del parlamentarismo e della democrazia rappresentativa degli anni trascorsi. Insomma: se questo è l’andazzo, le cose non cambieranno e se non cambieranno le cose della pratica di governo, non ci saranno reali aneliti di riformare un sistema politico agonizzante. Saranno questi i nuovi “Gattopardi”, gli eredi di don Calogero Sedara e della sua mai appagata smania di parvenu che ambisce solo essere al potere?

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