In una nazione i cui cittadini sprofondano progressivamente verso l’analfabetismo funzionale, ovvero l’incapacità di articolare un pensiero logico e compiuto (per non dire della comprensione del testo che leggono), tocca spesso approfittare delle ricorrenze di una nascita oppure della scomparsa degli uomini di genio per parlare di “Cultura” intesa con la C maiuscola. D’altronde nella scuola italiana, quella ormai trasformata in associazione per l’accoglienza e la parificazione sociale, la Storia e più in generale, la letteratura, sono diventate ancillari e semi sconosciute. Parliamoci chiaro. Nel corso degli anni, la politica ha pervicacemente smantellato non solo l’istituzione didattica che istruisce ed educa attraverso i saperi ma anche alcuni suoi cardini che pure sarebbero propedeutici all’ulteriore apprendimento ed all’espansione delle conoscenze. I sociologi studiano la società nel suo complesso ma, nonostante molti di essi si sforzino di sembrare più dei veggenti che degli analisti, non fanno altro che registrare eventi già accaduti proprio come succede con i sismografi. Eppure questa categoria ha fortemente inciso, insieme agli psicologi, sulle teorie pedagogiche più alla moda negli ultimi decenni, inducendo, nella pubblica opinione e nella classe politica che decide e legifera (sempre più ignorante), degli stereotipi fuorvianti se non propriamente dannosi per le nuove generazioni. Uno dei più grandi filosofi del secolo scorso K.R. Popper non a caso ci aveva messo in guardia indicando nei mezzi di informazione di massa, come la televisione, un vero e proprio nemico della cultura. Il pensatore austriaco, in quanto epistemologo, studioso dei processi cognitivi e della verità accertata con metodo e riscontri, non ha mai voluto annoverare tra le scienze quelle sociali, in quanto non assoggettabili a verifiche e riscontri. Peraltro essendo di cultura liberale, all’unisono con gli economisti di identica scuola di pensiero politico, Popper riteneva che il contesto sociale fosse un artefatto estraneo al rigore epistemologico. La società, in quanto composto da singoli individui con l’imprevedibilità dei gusti e dei bisogni di ciascuno di essi, non poteva essere considerato un tutt’uno che agisca unitariamente. Se ne deduceva, insomma, che le scelte riformatrici sulla scuola, quelle che fanno riferimento ad una visione collettiva della società e dei suoi bisogni (compresi quelli culturali), fossero viziate dal presupposto che tale istituzione dovesse prima obbedire ad una omogenea visione dell’agire, quindi parificare socialmente gli studenti e solo dopo provvedere ad istruirli. Per dirla con altre parole: ci troviamo al cospetto del vecchio vezzo della visione collettivistica nella quale l’uguaglianza viene spacciata come giustizia, ovviamente sociale. In questo calderone ideologico di antico radicamento, il sapere risulta soccombente rispetto alle finalità della scuola che istruisce, trasformando i docenti in assistenti sociali e la scuola in un’associazione per la parificazione degli alunni. Un sistema siffatto non può ispirarsi alla meritocrazia, al premio per i più bravi ed i più studiosi, ad una diversità degli esiti scolastici. Tutti ugualmente asini diventa l’unico per consentire ai più scarsi di parificare i più bravi. Questa impostazione ha privato il nostro Paese delle capacità dei migliori,la società boccheggia pervasa com’è di gente che poco o nulla porta nel proprio bagaglio culturale. Aiutare coloro che sono nati indietro a raggiungere l’uguaglianza delle opportunità, è certamente compito dello Stato, con adeguati sussidi economici e sostegno didattico, ma non lo si deve fare livellando verso il basso l’istruzione. I più poveri ed i meno capaci non hanno risorse per permettersi sostegni e scuole alternative.. Se a questo si aggiunge la demagogia dei decreti delegati e quel che ne è conseguito, con docenti che si sono ritrovati subalterni ai genitori, ecco che il quadro si fa a tinte ancora più fosche. Insomma: l’ignoranza diventa pari della conoscenza e quasi più nessuno si ritrova tra le mani gli strumenti per poter scegliere e valutare le cose con cognizioni di causa e, tra queste ultime, conoscere la storia dell’umanità e quella dei giganti che l’hanno attraversata. Ricordare, in un Paese ove solo qualche piccola frazione percentuale compra e legge un libro, oppure un giornale, che in questi giorni ricorre la morte di Albert Camus, filosofo e scrittore francese, premio Nobel per la letteratura, colui che ha insegnato al mondo l’esistenzialismo, è come parlare ad una ristretta cerchia di persone. Invasi come siamo dalle notizie che i social ci vomitano addosso, difficilmente siamo in grado di distinguere il vero dal falso, di valutare il contesto, le cause prime di un evento, inquadrare la notizia nella sua fase storica, economica e politica. Ciononostante, scrivere in memoria di Camus non diventa diminutivo perché chi lo ha letto, ha imparato che l’Uomo è “eroe assurdo”, che vive ed opera pur sapendo che non vivrà tanto per poter cambiare il mondo. In uno dei suoi romanzi più famosi “L’etranger” (lo straniero), si narra la storia di un personaggio che ha perso ogni sentimento, ogni sensibilità e che uccide senza valutare la gravità e la crudeltà del gesto. Ci avviamo verso un mondo nel quale senza la conoscenza umanistica diventeremo tutti privi di coscienza e di sensibilità. Estranei a quella umanità a cui pensiamo di appartenere. Insomma: tutti stranieri.