Uniti e uguali, un’occasione anti autonomie

Raffaele Carotenuto

di Raffaele Carotenuto*

Lo scorso 17 marzo è partito da Napoli il movimento “Uniti e Uguali” promosso dall’Associazione dei sindaci del Recovery Sud, per dire No al disegno di legge sull’Autonomia Differenziata. La parola d’ordine è stata “Sud e Nord, uniti nella lotta”. Una galassia di sigle, dal sindacalismo di base ai partiti della sinistra alternativa, hanno posto le basi per un movimento che parte dalle istituzioni (sindaci) e finisce, naturalmente, nel protagonismo sociale presente nelle regioni meridionali. Un no netto alla divisione dell’Italia e ad una “rivisitazione reazionaria” delle regole del gioco nei rapporti tra nord e sud della penisola.

Una piattaforma che potrebbe riprendere una nuova traccia meridionalista per troppo tempo fuori dalla storia dell’Italia, un movimento che, se introiettato dalla popolazione del sud, potrebbe aprire quella necessaria stagione conflittuale capace di eliminare le disuguaglianze sociali ed economiche tra le diverse parti del paese. 

Anche lo slogan usato è convincente; “Uniti e Uguali” richiama direttamente alla memoria le battaglie politiche e sindacali degli anni ’70, quando la lotta proletaria accomunò luoghi e territori, un’unica rabbia operaia, da nord a sud, che seppe combattere le gabbie salariali, l’alienazione creata dal modello produttivo, che delineò il principio della dignità della persona prima ancora dell’essere operaio. 

Insomma, il conflitto divenne un elemento di patrimonio collettivo al punto da trasporre in precisi articoli dello Statuto dei Lavoratori le battaglie iniziate sin dagli anni ’60. Così, ad esempio, “si impediva alle guardie giurate di entrare nelle linee di produzione, si trasferiva dai medici aziendali all’Inps la titolarità delle visite fiscali, si vietava il controllo del personale a distanza con apparecchiature audiovisive”. La parte padronale sembrò subire quella carta fondamentale tanto da non applicarla più di tanto, al punto che i sindacati produssero decine di migliaia di ricorsi alla magistratura per affermare il rispetto della libertà e della dignità dei lavoratori in esso contenuti.

La storia insegna, quindi, che solo se si è veramente uniti si può evitare una spaccatura profonda dell’Italia, provocata da una cultura leghista che deve provare a “proteggere” il presunto motore economico del nord, accompagnato da un sistema produttivo che ha nella sua ragion d’essere il mercato come dogma regolatore di tutto.

Allora come ora gli angusti spazi istituzionali, da soli, non bastano. Questa democrazia parlamentare fatta di “nominati” non potrà mai rappresentare un argine serio e costruttivo per la difesa dei diritti fondamentali delle persone, tale da riprendere le ragioni di questo nascente movimento. Il cambiamento deve partire dalla società e deve essere rappresentato dai cittadini del nord uniti a quelli del sud, e le città, da questo punto di vista, possono rappresentare meglio di tutti l’unità di intenti da perseguire. Sicuramente un percorso arduo in questa fase storica che si sta delineando, proprio per questo da mettere subito concretamente in cammino.

Da Napoli è possibile recuperare un ruolo decisivo per fermare qualunque “prurito divisivo” tra nord e sud, non è solo il problema di far ritirare il disegno di legge Calderoli, ma di far arretrare qualsiasi spinta istituzionale che non assicuri uguali diritti civili e sociali.  

L’orizzonte per questo movimento deve essere la cancellazione di quella parte del Titolo V della Costituzione, quella che prevede il cattivo proposito della differenziazione, ovvero l’accentuazione di forme particolari di autonomia sui diritti fondamentali. Una controriforma “reazionaria” che, purtroppo, è nata dalla pancia del centrosinistra. Dispiace notare che anche qualche “urlatore” di oggi fa finta di non esserci stato e si confonde nella massa.  

*Scrittore e meridionalista

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