Si chiude, finalmente, una vicenda cominciata nel 2021. Una storia che mi ha toccata nel profondo come donna, come giornalista, come cittadina. Il timbro del carcere, la grafia irregolare, le parole intrise di rabbia e disprezzo: una copia di quella lettera la conservo ancora, mi ricorda esattamente ciò che è stato e ciò che va fatto.
Una sentenza non restituisce la serenità, ma restituisce certamente giustizia. Non solo a me, ma a tutti noi che crediamo nella libertà di informare e di essere informati. Fa uno strano effetto – lo confesso – vedere un pezzo della propria vita trasformato in un atto dello Stato. Quelle parole, quelle minacce, sono state scritte per farmi tacere, per intimidire chi, come me, ogni giorno lavora per raccontare fatti scomodi, verità difficili, storie che a qualcuno conviene restino nell’ombra. Ma la paura, se la riconosci e la guardi in faccia, può diventare forza. E questa forza, io l’ho trovata nel mio lavoro, nella mia redazione, e nei tanti colleghi che non si sono voltati dall’altra parte.
Perché nessuno può permettersi di imbavagliare l’informazione. Nessuno può pensare di zittire la stampa con la minaccia, con la violenza o con l’arroganza di chi crede che il potere criminale valga più della verità. A questa sentenza, dunque, non do solo il valore simbolico di una vittoria personale. La sento come una vittoria collettiva, un segnale che lo Stato è presente e riconosce la gravità di un gesto mafioso che tenta di colpire al cuore la libertà di stampa.
A tutti, ma in particolare ai colleghi che leggono queste righe voglio dire una cosa semplice ma urgente: denunciate. Sempre. Non lasciate che la paura diventi silenzio. Perché ogni volta che un giornalista tace di fronte a una minaccia, vince chi vuole un’informazione debole, condizionata, complice. Nessuna minaccia, nessun ricatto, nessuna paura può valere quanto la dignità del nostro lavoro e la verità che portiamo ai lettori. Chi sceglie di minacciare un giornalista vuole cancellare non solo una voce, ma la possibilità stessa di raccontare. E questo non possiamo permetterlo. Perché quando il giornalismo tace, la democrazia si spegne.
Oggi si chiude una pagina dolorosa della mia vita. Ma da quella pagina nasce un impegno ancora più profondo: continuare a raccontare, senza paura. Perché il giornalismo, quello vero, non si piega.