Nel disegno di legge anti-corruzione, preannunciato dal governo in questi giorni, ancora in fase di studio, ed in procinto di presentazione definitiva ed approvazione, è contemplata tra l’altro una norma che qualifica come “non punibile” la condotta di chi “si autodenuncia spontaneamente” per aver commesso il reato di corruzione. Tutto ciò a condizione che egli lo faccia “prima della iscrizione del suo nominativo nel registro di notizia di reato della Procura della Repubblica” e, comunque, “entro tre mesi dalla commissione del fatto”. E non solo! A condizione che egli dia elementi “utili” alla prova della sussistenza del reato e all’individuazione di altri corresponsabili. È questa la prima determinante novità prevista nel disegno di legge (cui e’ impegnato un gruppo di lavoro) ed è formata solo da pochi articoli. Orbene se l’ipotesi – contenuta nell’art. 1 del disegno di legge, vale a dire la “non punibilità” per chi si autodenuncia – passa, è una novità davvero senza precedenti per il nostro Codice. Ma la prima domanda che ci dobbiamo porre è questa: come può qualificarsi, in punto di diritto, una esimente del genere? La risposta, in questa prima fase, potrebbe essere una sola : l’aver introdotto la novella ex art. 323-ter del codice penale titolata “cause di non punibilità”, collegata alla commissione «dei fatti – reato previsti dagli articoli 318, 319, 319-quater, 320, 321, 322-bis, e limitatamente ai delitti di corruzione, di induzione indebita r 346 bis». La norma – prima face – dovrebbe estendere la sua applicazione come “causa di non punibilità al pubblico ufficiale, all’incaricato di un pubblico servizio sempre alla stessa condizione: che essi si autodenunciano all’AG – entro tre mesi o prima dell’indagine ed è subordinata alla “messa a disposizione dell’utilità percepita”, nonché a fornire di elementi utili per individuare gli altri corresponsabili. Ma è costituzionale una norma del genere? Questo ci dobbiamo chiedere. Secondo noi non lo è, perché il ddl, in prima lettura, nasce affetto da una patologia. Riteniamo che il testo – con cui si vorrebbe esonerare da responsabilità penale chi pone in essere una condotta comunque penalmente – ha tutta l’aria di essere più che un testo normativo, una presa di posizione, quasi l’affermazione di un principio che chi collabora resta impunito e il tentativo di imporlo per le vie della giustizia penale. E, forse “presi” dalla contingenza attuale e dalla pur condivisibile intenzione di stigmatizzare certe condotte – ammesso che sia necessario – condotte diffuse nel nostro paese, il legislatore sembra stia imboccando la strada di un intervento normativo a forte rischio di incostituzionalità. E spieghiamo il perché, dal nostro punto di vista. Sappiamo bene che esistono diverse forme di premialità e di non punibilità, ad esempio nel diritto tributario, nella tutela della concorrenza e cosi via. Ma vale la pena ricordare che l’art. 112 della Costituzione stabilisce espressamente che il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale; ergo l’inserimento di una causa speciale di non punibilita’contrasta sicuramente con un dettame di rango costituzionale. La bozza del ddl prevede,poi, anche eventuali casi di strumentalizzazioni come nell’ipotesi di chi voglia “denunciare un rivale”. Ebbene in una evenienza del genere la causa di non punibilità non si applica quando vi è prova che la denuncia sia stata premeditata a fronte della commissione del reato.Un’altro punto che non condividiamo e che, a nostro avviso, potrà essere oggetto di forti polemiche riguarda l’innalzamento delle pene per i reati di corruttela e per quelli di traffico di influenze illecite. La riflessione da fare, a questo proposito, è la seguente : ma a che serve inasprire ulteriormente le pene, se quelle attuali, già innalzate ben due-tre volte, con distinte riforme, non hanno sortito effetto di sorta? Forse si vuole, ancora una volta, usare il regime delle pena come deterrente e con una funzione meramente retributiva ? Ed allora dove va a finire la sua funzione social preventiva e rieducativa ? Altra innovazione la cogliamo nel divieto ‘perpetuo’ a partecipare agli appalti pubblici, per chi subisce una condanna superiore ai due anni di reclusione per specifici reati contro la Pubblica Amministrazione. E poi l’ulteriore novità che “la riabilitazione non estingue la pena accessoria”, cioè non fa venire meno l’interdizione. In altre parole, il provvedimento de quo renderà impossibile, per una persona condannata in via definitiva per corruzione, avere rapporti per tutta la vita con la pubblica amministrazione. L’imprenditore condannato, ad esempio, non eviterà il Daspo nemmeno dopo aver scontato positivamente la pena con l’affidamento ai servizi sociali e nemmeno essere stato riabilitato. Ed anche questo passaggio sarà e dovrà essere oggetto di forti critiche perché svilisce un importante istituto qual è quello della riabilitazione che non avrebbe più ragion d’essere. Non comprendiamo, pero’, ancora la posizione di chi andrà a beneficiare della sospensione condizionale della pena oppure di chi ha optato per il rito alternativo del patteggiamento se potrà essere colpito da Daspo e dall’interdizione dai pubblici uffici. Se questo è il quadro, secondo noi, il giro di vite con l’irrogazione di un “Daspo ad aeternum” è certamente discutibile e stravolge, anche in questo caso, la funzione social preventiva della pena, dando spazio solo ed esclusivamente alla funzione retributiva della stessa. E poi l’annunciata estensione della figura dell’agente sotto copertura per contrastare i reati contro la Pubblica Amministrazione prevista contro mafia, narcotraffico e terrorismo) e quelle sulla perseguibilità d’ufficio per alcune ipotesi di reato, secondo noi, sarà oggetto di un duro confronto perché le riteniamo misure “azzardate”. Siamo d’accordo con quella che è stata definita: “Lotta senza quartiere a mafie e corruzione, ma non dobbiamo dimenticare che si è innocenti fino al terzo di giudizio” e che va rispettata la Carta Costituzionale. Da ultimo segnaliamo che tra i sei articoli del disegno di legge c’è anche un’ulteriore novità: sparisce il reato di millantato credito e viene potenziato il traffico di influenza. Cosa cambia? Questo ci dobbiamo chiedere. La pena attualmente prevista è da uno a tre anni di reclusione e gli indagati, per questa ipotesi di reato, non possono essere soggetti ad intercettazione. Nel disegno di legge del Governo invecesi prevede di cancellare il millantato credito (che ha una pena da 1 a 5 anni) e di innalzare la pena del traffico di influenze (da 1 a 5). La conseguenza sarà che per questo tipo di reato si potranno usare le intercettazioni. Infine sarà eliminata la procedibilità a querela quanto alla corruzione tra privati.Ma anche sulla stessa figura dell’agente sotto copertura, noi penalisti abbiamo perplessità e qualche riserva è stata avanzata anche da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati. In definitiva il nuovo disegno di legge anticorruzione si reggerebbe su due pilastri: il cd. “Daspo” per i corrotti da un lato e l’estensione della figura dell’agente sotto copertura anche ai reati contro la Pubblica amministrazione dall’altro. Si noti bene che attualmente questa figura è limitata a reati di mafia e traffico di stupefacenti. Ma, in conclusione, tutte le riforme vanno fatte e si possono fare, ma solo se rispecchiamo i dettami costituzionali. Serenamente affermiamo che qui versiamo, per taluni versi, in un percorso di dubbia costituzionalità. In conclusione è vero che il reato è il patologico della società ed il diritto penale chiamasi vivente, ma dobbiamo stare attenti. Attenzione perché il diritto non può essere condizionato dall’opportunità perché ciò fa venir meno la certezza del diritto che e’ il pilastro su cui si regge una società democratica.
Raffaele Gaetano Crisileo, avvocato penalista