L’arte di diffidare e il naso di Cleopatra

L'intervento dell'ex parlamentare Vincenzo D'Anna

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse

Il vecchio Priamo ben conosceva l’arte divinatoria di Cassandra quando intimò ai troiani di diffidare dei doni offerti dai greci ed ardere quel grande cavallo di legno che l’astuto Ulisse aveva ideato. Tuttavia, Apollo aveva conferito a Cassandra l’arte della divinazione, ma non quella di essere creduta. Di conseguenza, quel che sembrava più che credibile non fu creduto.

E’ la stessa situazione che si parò innanzi a Matteo Renzi all’indomani della sconfitta sul referendum costituzionale allorquando l’ex “rottamatore” vide svanire molta della propria sicurezza.

Non sono a conoscenza di quale sia stato il sortilegio operato nei confronti del giovane leader politico di Rignano, né di chi lo abbia fatto, ma gli effetti risultarono praticamente identici a quelli raccontati da Omero. Il giovane premier non volle credere infatti ai reiterati

Vincenzo D’Anna

consigli ed alle analisi politiche che, con grande modestia gli avevamo più volte sottoposto, avvertendolo delle insidie di una politica che, persa credibilità, sarebbe franata anche sotto i suoi piedi. Ma cosa avevamo detto allora al segretario del Pd nelle vesti di inascoltate Cassandre? E’ presto detto: di offrire all’elettorato italiano un nuovo partito ed una nuova prospettiva politica, e di avviare realmente quella rottamazione (che pure lui aveva promesso) dentro e fuori un Pd che di lì a poco sarebbe stato scosso dalla scissione degli ex comunisti.

Nel settembre del 2015 ebbi infatti a dichiarare alle agenzie di stampa: “Renzi sa bene che o affronta i nodi veri della crisi economica, a partire dalla radicale riforma dei compiti, delle funzioni e delle attribuzioni dello Stato oppure dovrà tirare a campare logorandosi nel tempo come hanno fatto i suoi predecessori. Abbiamo inoltre la necessità di portare a compimento quelle riforme chiamate ‘rivoluzione liberale’ che nel centrodestra sono state disconosciute e inattuate. Prima tra tutte la riforma elettorale, confermando il maggioritario. Se è l’Italicum deve rimanere col premio alla lista ed un alto sbarramento se non si vuol tornare al Mattarellum per evitare capi e capetti alla testa dei rispettivi partitini. Solo così finiamo dentro tutti insieme moderati e riformisti nel Partito della Nazione…, e la sinistra Pd con la Destra Lepenista se ne vanno per i fatti loro”.

Era quella l’epoca in cui si discuteva anche di riforma costituzionale. Erano i mesi in cui molti stolti tentavano di rispolverare il vecchio sistema elettorale proporzionale e di archiviare il bipolarismo che, nel ventennio in cui era stato applicato, aveva comunque garantito la perfetta alternanza tra centrodestra e centrosinistra.

Il sistema proporzionale avrebbe rappresentato la morte della fase di rinnovamento della prassi e dei costumi politici, iniziata con la discesa in campo di Silvio Berlusconi nel 1994 ed il ritorno alla logica dell’appartenenza, delle intese di potere tra partiti con governi confezionati solo dopo il voto. Circostanza, quest’ultima, che rischiava di produrre dei veri e propri mostri politici, come purtroppo poi è accaduto con il governo giallo-verde, una compagine composta da due forze, Lega e M5S, che se solo avessero osato dichiarare, in campagna elettorale, l’intenzione di allearsi dopo le elezioni, non avrebbero raccolto neanche un quarto dei voti che pure hanno ottenuto.

Pochi, in quei mesi, compresero che il deterioramento del blocco costruito attorno a Berlusconi aveva lasciato in libertà milioni di elettori, rimasti ormai senza punto di riferimento, delusi dalla mancata attuazione di quella rivoluzione liberale che avrebbe dovuto portare all’ammodernamento dello Stato. Pochi capirono che bisognava confermare il sistema maggioritario e quello dell’alternanza. Un sistema dentro il quale gli italiani si erano riconosciuti ora votando Berlusconi, ora votando Prodi.

Confermato il maggioritario, con preferenze, in realtà, mancava solo il nuovo contenitore politico in grado di raccogliere queste istanze trasversali ai vecchi schieramenti. Mettere tutti insieme i moderati ed i riformisti, cioè tutti coloro i quali volevano evitare al Paese un governo di sfascisti e di avventurieri e continuare così l’opera di riforma dello Stato.
Il partito della Nazione era la sintesi di questa semplice intuizione e di questa elementare analisi. Un’analisi che in tanti, sia nel centrosinistra sia nel centrodestra, non vollero intendere nella speranza, chissà, di poter riaffermare, un giorno, la propria sopravvivenza attraverso un sistema proporzionale nel quale ciascuno potesse rivelarsi determinante nel costruire maggioranze post elettorali portandosi in dote il proprio manipolo di parlamentari. Stolti, ahimè, che non a caso sono stati spazzati via d’emblée dalla corrosiva azione della demagogia grillina, dal sapiente uso dei social e delle fake news e da un moralismo d’accatto gradito al giustizialista ed alla promessa di redditi di cittadinanza graditi all’orecchio dei nuovi e vecchi assistititi (e beneficiati) sociali.

La morale di tutto questo è che oggi esiste un grande spazio politico vuoto, perché non esiste un movimento, un partito, un programma comune in grado di poterlo occupare. Né esiste ancora l’uomo in grado di poter rappresentare questa esigenza, per ribaltare il governo farlocco dei populisti e dei sovranisti. Aveva ragione Blaise Pascal quando affermava che “se il naso di Cleopatra fosse stato più corto l’intera storia del mondo sarebbe cambiata”. In politica le cose camminano, appunto, sulle gambe degli uomini.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome