La bilancia sghemba

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

di Vincenzo D’Anna

La montagna ha partorito il topolino. E’ un vecchio aforisma popolare che ben si attaglia alla riforma della giustizia proposta dal ministro Marta Cartabia ed approvata all’unanimità dal governo. Per quanto a lungo meditata e discussa sia stata, in sede politica e giornalistica, tale riforma si presenta come abbastanza minimale rispetto al novero delle questioni poste sul tappeto e pertanto non può considerarsi né completa, né adeguata. Certo rappresenta un segnale, sia pur timido e parziale, che la classe politica vuol lanciare nel campo dei togati, di quel potere giudiziario, cioè, che per oltre trent’anni ha fatto il bello ed il cattivo tempo protetto da due scudi: il primo costituito dall’irresponsabilità e dall’intangibilità dell’ordine giudiziario che in tantissimi casi si è trasformato in imperio ed abuso soprattutto nelle mani di certi pm a caccia di notorietà e di scalpore come fondamento per far carriera; il secondo dalla rinuncia – da parte dello stesso mondo politico – alle garanzie costituzionali, che va sotto il nome di autorizzazione a procedere. Stiamo parlando della potestà concessa ai parlamentari dai padri costituenti, di potersi esprimere sull’intenzione dei magistrati a voler processare un membro delle stesse Camere. Ora, spogliatisi di questa prerogativa costituzionale deputati e senatori sono divenuti oggetto, spesso vittime, di iniziative giudiziarie il cui unico scopo era quello di colpire componenti di un determinato schieramento di credo politico opposto rispetto a quella del togato di turno inquirente, oppure (peggio ancora) utile al medesimo per assurgere agli onori delle cronache. Come e perché sia stato compiuto questo atto di masochismo e di autolesionismo lo si comprende solo analizzando il clima di discredito in cui la classe politica si trovò coinvolta negli anni Novanta del secolo scorso, agli sgoccioli, in pratica, della cosiddetta “Prima Repubblica”. Imperversava allora lo scandalo di “Mani pulite”, anch’esso originato da una legge varata, ipocritamente e demagogicamente, dal Parlamento stesso, sul finanziamento pubblico ai partiti. Proprio in quegli anni veniva a galla la diffusa abitudine dei partiti di usufruire di finanziamenti occulti e come tali non dichiarati come le norme imponevano. Sia ben chiaro che non mancarono evidenze di fatti “corruttivi” e di malcostume vero e proprio, di arricchimento personale e di compromissioni tra politica e mondo dell’impresa. A questa diffusa illegittimità (e all’illeicità ad essa connessa) si sarebbe potuto mettere riparo senza sguarnire la politica delle garanzie costituzionali, quelle che le avevano consentito di non subire attacchi dagli altri poteri dello Stato. Molti furono coloro i quali sfruttarono l’occasione per buttare discredito su taluni rappresentanti del governo, ancorché i fatti storici avessero successivamente dimostrato che i maneggi occulti erano trasversali ed usuali per quasi tutti i grandi movimenti di quel periodo. Sorgeva l’epoca del moralismo a senso unico, dell’uso politico degli interventi della magistratura e viceversa, dei “manettari” e degli odiatori sociali. Un clima da gogna popolare che indusse il Parlamento a denudarsi dello scudo costituzionale onde poter dare dimostrazione ed esempio di una redenzione – espiazione – che comunque non le sarebbe servita per arginare faziosità di giudizio e riconciliazione con l’opinione pubblica. In questa breccia si inserì il potere della magistratura politicizzata, che pretende di dare alla legge  un ruolo politico,  ovvero della corrente che radunava le toghe di sinistra che in combinato disposto con gli ambienti della sinistra politica (e giornalistica), mise in piedi la macchina del fango con i correlati processi mediatici giudiziari, per eliminare gli avversari politici di turno. Chi da anni invoca nuove regole, pur nel rispetto della trasparenza e della responsabilità del ceto politico, per porre fine a questa barbarie, alla paura ed all’ingerenza della magistratura militante, non può che rimanere deluso dalla legge Cartabia. Nessuna separazione delle carriere tra giudicanti ed inquirenti, nessuna sanzione nei confronti degli abusi, dell’imperizia e della negligenza dei giudici, nessuna modifica dei tempi e dell’efficienza dei processi, nessun intervento meritocratico sulle carriere. Un timido accenno lo si trova solo su quest’ultimo punto, ma vale solo per la progressione e la nomina dei magistrati presso la Corte di Cassazione. Per le nomine dei giudici di terzo grado verrà fatta una valutazione sulle sentenze da questi emesse in precedenza e la percentuale di conferma di queste nei successivi gradi di giudizio. Sui magistrati di primo e secondo grado, niente di niente. Così per i procuratori della Repubblica ed i pubblici ministeri che sono i più inclini a commettere abusi sulla libertà dei cittadini. Insomma: la bilancia della giustizia sarà ancora sghemba in Italia, dove continuerà a prevedere due pesi e due misure.

*già parlamentare

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