CASERTA (Anastasia Leonardo) – Un cielo plumbeo che spaventa, che invita a rintanarsi in casa. E’ l’aria che tira in Terra di Lavoro, terra bufalina per eccellenza, epicentro di uno dei più grandi disastri veterinari della gloriosa storia casertana: la chiusura, in meno di dieci anni, di oltre 300 aziende bufaline, eradicate dal territorio, abbattute insieme ad oltre 140 mila capi di bestiame sui quale s’è andata ad infrangere la damoclea spada delle ordinanze sanitarie di abbattimento per sospetta brucellosi e/o tubercolosi. Un sospetto quasi sempre rimasto tale, viste le diagnosi post mortem che avevano assolto i poveri animali. Nessuna brucellosi, nessuna tubercolosi. Carta canta inutilmente. Il Piano (di eradicazione) va avanti.
Un clima insomma pesante, fatto di apprensione e rinuncia. Casuali gli episodi di furti e incendi in azienda ai danni di alcuni allevatori tra quelli che avevano aderito al movimento di protesta? Pura coincidenza? Le denunce, seppur timide e parziali, ci sono, i colpevoli non ancora. Il tempo forse dirà. Intanto la partecipazione diretta alle proteste risente delle assenze di quanti rispondono: “Vorrei ma non posso, tengo famiglia”. Gli allevatori non si fidano, temono, e ci vanno in punta di piedi. Vanno cauti. E se all’inizio chiedevano la testa dei responsabili della mattanza ingiustificata, ora ci si accontenta di un Tavolo. Forse è meglio così. Meno problemi. “E magari i ristori, per quanto insufficienti, non arrivano quando saremo già tutti morti”, ci suggerisce un allevatore.
Ma la circostanza dei controlli a tappeto all’alba del 21 luglio, quando oltre 100 trattori avrebbero dovuto partire alla volta di palazzo Santa Lucia (ne partirono solo una sessantina), ma bloccati in azienda dagli accertamenti, brucia ancora.
In sequenza: disperazione nel vedersi abbattere centinaia e centinaia di capi; la speranza, il più delle volte vana, di poter ripopolare la stalla; il timore di esporsi misto alla paura di fallire. Paura di non riuscire a rialzarsi. E così brucia ancora il ricordo di Massimo (nome di fantasia, ndr), l’allevatore salvato all’ultimo minuto utile dalla moglie mentre era in pieno tentativo di suicidio.
Non ci sono mulini a vento, nemici immaginari. Peggio, c’è un muro di gomma che spesso spaventa e spegne qualsiasi possibilità di perseveranza. E dai timori alla rassegnazione, spesso, il passo è breve. Pesa, ci dicono nelle stalle, il silenzio delle istituzioni che dovrebbero intervenire, squarciare il velo delle reticenze, abbattere il muro di gomma. “Secondo lei – ci dicono -, perché a Palazzo Santa Lucia non vogliono ascoltarci?”. “Perché nessuno va a chiedere a quel veterinario perché ha preferito dimettersi, licenziarsi, piuttosto che continuare a lavorare per l’Asl?”. “Perché nessuno si muove?”. Del Palazzo non si fida quasi più nessuno, nel Palazzo gli amici degli allevatori sono pochi e tanto contano: poco.
Altrimenti, ci spiegano, la Commissione di inchiesta che avrebbero voluto veder nascere in Consiglio regionale non avrebbe avuto alcun problema a partire, non si sarebbe inabissata nei cassetti della Presidenza di Oliviero o in quelli della Commissione di Sommese. Domanda: chi è che non vuole la verità?
Al tempo dell’emergenza rifiuti la Commissione d’inchiesta fu un successo. Determinante. Ma i tempi sono evidentemente cambiati. Anche a sinistra. I sindaci? Fortunatamente non tutti, si concentrano sui loro mille problemi ed altri non ne vogliono. Guai a mettersi di traverso. Non parlare al conducente.
E i tempi della giustizia, per chi la chiede, sono troppo lenti e lunghi? Dalle nostre parti si dice che mentre i medici studiano il malato muore. Tanti ne sono già morti. Altri ne moriranno. E la prevenzione? E’ l’eradicazione, bellezza.
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