Quasi in sordina, pressoché ignorata dalla grande stampa, sta per essere votata, in Parlamento, la legge sulle Autonomie differenziate. Il testo in questione è pieno zeppo di riferimenti ad articoli della Costituzione che dovranno essere modificati affinché la norma stessa possa vedere la luce (ed essere applicata). Qualora non lo si fosse capito, ci troviamo innanzi all’apoteosi dell’italica furbizia: quella di voler cambiare alcuni punti della Magna Carta senza avere saputo o voluto riformarla organicamente nella parte che oggi si presenta manchevole ed anacronistica. Facile, a questo punto, prevedere un’immediata raccolta di firme per un referendum abrogativo dei cambiamenti apportati con tanto di lungo e tortuoso iter giudiziario condito dal solito codazzo di accuse e polemiche. Il fronte che sostiene la legge è trasversale e vede protagoniste tre regioni di cui due amministrate dal centrodestra (Lombardia e Veneto) e la terza dalla sinistra (Emilia Romagna). C’è quindi da ritenere che il blocco politico dei contrari ma anche quello dei sostenitori, finirà per essere variegato e che non mancheranno contraccolpi interni su entrambi i lati della barricata. Fuori dai tecnicismi costituzionali, occorre fare qualche esempio su cosa cerchino effettivamente i tre enti locali che, più di tutti, hanno invocato le modifiche della Costituzione e quelli che, in seguito, con istanze anche diverse, si sono accodati alla cordata. In estrema sintesi: viene chiesto allo Stato di ampliare il novero delle funzioni che ogni regione potrà gestire nei settori della pubblica istruzione, della formazione professionale, della sanità, dei trasporti, delle strade, dei porti e degli aeroporti; della navigazione, dei beni culturali, dell’alimentazione, dell’ordinamento sportivo, della distribuzione di energia, della protezione civile; dei rapporti con l’Unione Europea e del coordinamento della finanza pubblica oltre che del sistema tributario. Alcune di queste materie sono già gestite con la formula della legislazione concorrente (le regioni dispongono, lo Stato controlla); altre sono centralizzate per via esclusiva. Ora, a norma approvata, tutte passerebbero al controllo degli enti territoriali. In questo passaggio, il vero nodo gordiano da sciogliere, il motivo, insomma, della contesa, resta quello tributario, ovvero chi potrà godere della disponibilità delle tasse pagate in ciascuna regione versando un’aliquota allo Stato secondo il criterio della solidarietà nazionale. Insomma: si tratta di invertire i flussi che oggi vanno dal centro alla periferia. Per capirci: il Veneto chiede di trattenere addirittura il 90% degli introiti; più accorte Lombardia ed Emilia, ancorché la maggioranza degli introiti provenienti dalla tassazione dovrebbe restare in capo alle regioni. Servirebbe poco per dimostrare come taluni funzioni siano tipiche dello Stato e che il dovere di equità con il quale il medesimo è chiamato a governare la nazione, unitamente alla gestione delle grandi reti di comunicazione, dell’energia, dei rapporti con la UE (e quello con gli istituti di credito) e delle tasse, siano leve essenziali per chi governa il Paese. Tuttavia non ci preme, in questa sede, dimostrare che ci sarà un’asincronia e tanta confusione, ma “solo” che si stanno creando le condizioni politico-economiche per distruggere il primato nazionale su quello locale. La verità ultima, infatti, è che si stia compiendo la più grande delle ingiustizie: fare parti diseguali tra eguali quali sono tutte le regioni italiane. Tuttavia ci viene raccontato che con l’autonomia rafforzata ci sarà migliore efficienza e qualità dei servizi. Peccato che, così stando le cose, i servizi miglioreranno, sì, ma solo laddove questi sono già oggettivamente migliori!! E lo stesso discorso vale per le opportunità ed i diritti che lo Stato è chiamato a garantire ad ogni cittadino. Se migliorassero i sevizi e l’efficienza nel Meridione, nessuno obietterebbe. Peccato però che avvenga l’esatto contrario!! Il governo Meloni ha fatto della difesa dell’italianità in ogni settore, finanche nel campo alimentare, il proprio tratto distintivo. Attualmente però si trova sotto gli occhi alleati come la Lega e gran parte dell’establishment berlusconiano, che mietono voti in Lombardia e Veneto a fronte di una forza elettorale, quella del partito di Giorgia, che è prevalentemente “sudista”, così come lo è la buona parte dei parlamentari di FdI non proprio molto ben disposti a “spogliare” ulteriormente le proprie terre d’origine. Vengono insomma al nodo i limiti e le contraddizioni di alleanze fatte da cartelli che in comune hanno ben poco ed un sistema elettorale pensato per poter ricattare chiunque. Fratelli d’Italia dovrà scegliere se restare coerente oppure no. Perché fratelli, in fondo, lo furono pure Caino e Abele.
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