Chi custodirà i custodi?

Vincenzo D'Anna, già parlamentare

“Quis custodiet ipsos custodes” recita un celebre brocardo latino tratto dalle satire di Giovenale. Tradotto: “chi custodirà i sorveglianti dai sorveglianti stessi?”. Un espressione, quella degli antichi Romani, che ha un grande fondamento di saggezza ed è sovente applicabile anche ai tempi nostri, ai moralisti ad oltranza, ai severi custodi della legge e dei pubblici costumi. A tale categoria di intemerati si può iscrivere certamente Piercamillo Davigo magistrato del pool “Mani Pulite” e successivamente componente del Consiglio Superiore della Magistratura nonché presidente dell’Anm, l’Associazione Nazionale dei Magistrati. Costui non è stato solo un giudice intransigente ma anche un togato etico, ovvero fermamente convinto che coloro che non condividevano il suo stile di vita, oltre alle idee politiche ed alla mentalità giacobina con le quali le portava fermamente avanti, fosse un potenziale malfattore, un corrotto in potenza che non avrebbe potuto che trasformare, prima o poi, quell’insana inclinazione ad infrangere le leggi in un atto concreto. Insomma: stiamo parlando del peggiore dei giudici, che eleva la sua morale personale a valore vincolante dell’etica pubblica, a metro dell’altrui onestà. Non a caso una delle frasi più celebri che vengono attribuite è la seguente: “non ci sono cittadini innocenti, ci sono solo cittadini sui quali non si è indagato abbastanza”. Ed ancora “i politici continuano a rubare ma non se ne vergognano”. Insomma, per dirla alla Davigo: la politica come luogo naturale dell’illegalità e della corruzione, giammai luogo della responsabilità e del buon governo della società. Un fondamentale presidio politico e costituzionale, i cui rappresentanti vengono scelti con il principio del libero voto del popolo italiano in nome del quale la legge stessa si applica. Un pregiudizio immarcescibile, il suo, che lo ha allineato a queì giornalisti politicizzati ed agli ambienti che si nutrono di pane e veleno. Fautore del rito ambrosiano, ai tempi di Tangentopoli, ossia della carcerazione preventiva per estorcere confessioni da parte dei sospettati, Davigo si è sempre detto convinto che la corruzione potesse essere contrastata solo con le manette e la galera, che la Magistratura avesse una funzione vicariante rispetto all’infida politica e che, pertanto, si dovesse elevare la giurisdizione alla funzione di controllo preventivo della legge da varare. Non sono state poche le interferenze pubbliche, e credo anche private, che questa tipologia di magistrati ha esercitato sui taluni settori del Parlamento allorquando erano in discussione norme che riguardavano la giustizia, il ruolo degli inquirenti (pubblici ministeri) e delle procure della Repubblica. Insomma: un moderno Robespierre in toga, un fustigatore della società armato di codice penale sotto la sicura copertura delle prerogative costituzionali che ancora oggi cancellano anche le colpe e gli abusi delle toghe. Un tenace assertore di quella grande menzogna che ancora alligna in molti ambienti: quella che parifica l’indipendenza dei magistrati con la loro impunità perpetua, alla remissione di errori, abusi e pregiudizi politici. Insieme ai suoi avvocati, con uno scarno comunicato stampa emanato subito dopo la sentenza del Tribunale di Brescia con la quale è stato condannato ad un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio, Davigo ci ha ricordato che esiste ancora la presunzione di innocenza. Peccato che per le stesse identiche motivazioni, nella veste di pubblico ufficiale, l’ex presidente della Regione Siciliana Totò Cuffaro, fu condannato a quattro anni di carcere, angariato ed allontanato dalla politica!! Pensate: Davigo, allora, si dichiarò anche contrario alla sospensione della pena dopo la sentenza di primo grado e buon per lui che la legge non l’avesse scritta né lui né Gianroberto Casaleggio che all’epoca perorava una soluzione di quel tenore!! Certo, presunti innocenti lo erano anche quelle migliaia di cittadini stangati in primo grado oppure carcerati senza processo, distrutti irreparabilmente nelle loro attività e nella vita politica esposti alla gogna ed al pubblico ludibrio, salvo poi essere assolti nei successivi gradi di giudizio!! Chissà, forse Davigo non conoscerà l’onta del fango spalatogli addosso dai media compiacenti, ed il suo processo finirà nel nulla come l’affaire Palamara e tanti altri processi che riguardano i magistrati hanno finora insegnato. Tuttavia perderà almeno quell’alone di mistico combattente per l’onestà e la moralità, che non poco ha gradito negli anni. Forse da questa vicenda potrà venire non solo un monito contro l’estremismo di certi magistrati, ma anche un viatico per una riforma, quella della giustizia, giustamente messa in cantiere dal governo di centrodestra, coalizione che più di tutte ha pagato un alto prezzo sull’altare del pregiudizio e della politicizzazione dei togati. Sono convinto che da una riforma anche lo stesso ordine giudiziario potrà trarne giovamento comprendendo che solo il giudice sereno che applica leggi chiare e severe può essere posto a presidio della legalità.
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