Clan dei Casalesi, le chiamate dal carcere di Bidognetti per impartire gli ordini agli affiliati

L'indagine della Direzione distrettuale antimafia sulla nuova struttura della cosca

CASAL DI PRINCIPE – Guidava la compagine mafiosa dal carcere di Terni grazie ad un cellulare: è la tesi della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. La prigione non avrebbe impedito a Gianluca Bidognetti, figlio del boss Cicciotto ‘e mezzanotte, di ricoprire il ruolo di capocosca. La prima chiamata intercettata che ha messo in allerta gli investigatori è datata 5 novembre 2020. Parte proprio da Terni, da un numero intestato ad un cittadino straniero e a raccoglierla è Vincenzo D’Angelo. Per i militari dell’Arma non ci sono dubbi: era la voce di Gianluca. In quell’occasione si limitò a dire: “Dammi il numero di Paciotto, mandami un messaggio sopra a questo telefono”.

Il ‘Paciotto’ a cui faceva riferimento, accertano i carabinieri, è Federico Barrino, destinatario anche di numerose lettere inviate proprio da Gianluca dalla prigione. Quest’ultimo a ‘Paciotto’ avrebbe dato il compito di riscuotere i soldi ottenuti dalle estorsioni a cui venivano sottoposti, in nome del clan, i negozianti e gli imprenditori dell’Agro aversano.

A fare da collegamento tra il figlio del capoclan, recluso in regime di ‘alta sicurezza’ a Terni, e il mondo esterno sarebbe stato soprattutto Vincenzo D’Angelo, compagno di Teresa Bidognetti (sorella di Gianluca).

Se il figlio di Cicciotto non riuscirà a dimostrare la propria innocenza in relazione alle accuse che gli vengono contestate dalla Dda di Napoli, il suo ritorno in libertà, che era previsto prima della fine del 2024, non si concretizzerà.

Si trova in cella dal 2008, quando, in piena stagione stragista, fu coinvolto, per volere di Giuseppe Setola, nel tentativo di omicidio della zia, un modo per colpire la madre pentita Anna Carrino.

Gianluca Bidognetti ha già sulle spalle condanne irrevocabili per circa 20 anni di reclusione (è stato ritenuto colpevole di due tentati omicidi, di associazione mafiosa e protagonista anche di un giro di falsi certificati grazie ai quali avrebbe ottenuto il permesso di incontrare la fidanzata in prigione). C’era il timore che una volta tornato in libertà, Gianluca potesse andare ad occupare il vertice della cosca fondata dal papà (condannato all’ergastolo). Ed invece, stando all’indagine che ieri è sfociata in 39 misure cautelari (disposte dal giudice Isabella Iaselli), il rampollo ha preso in mano le redini del gruppo mafioso direttamente dalle cella (senza neppure doverla lasciare). Come? Non solo impartendo ordini in merito alle estorsioni da eseguire, ma contribuendo pure nella gestione di settori storicamente d’interesse del clan, come quello delle pompe funebri.

“Tu sei il figlio della pentita o di Cicciotto?”

Da un lato la mamma, Anna Carrino, donna di mafia che aveva deciso di iniziare a collaborare con la giustizia, dall’altro il papà, Francesco Bidognetti, ergastolano, feroce boss del clan dei Casalesi. Quella in cui è cresciuto Gianluca Bidognetti è quanto di più distante possa esistere da una famiglia comune, da una famiglia da ‘mulino bianco’. A metterlo di fronte alla tragica realtà che la sorte gli aveva destinato fu Giuseppe Setola (nella foto), capo dell’ala stragista della cosca diretta dal genitore. La Carrino da poco aveva iniziato a collaborare con la giustizia. E lo spietato killer lo sottopose ad un interrogativo pesantissimo: “Tu una volta sola devi parlare con me… sei il figlio della pentita o il figlio di Cicciotto?”. Un quesito che gli rivolse puntandogli contro la pistola.

Se conosciamo questo spaccato è perché a raccontarlo è stata Teresa Bidognetti, sorella di Gianluca. Era il 28 maggio dell’anno scorso. Si trovava nella sua abitazione insieme a Giovanni Stabile (estraneo all’inchiesta), suo cugino. Ed è a lui che, ignara di essere sottoposta ad intercettazione, racconta il confronto che il fratello ebbe con Setola. “A me – riferì a Stabile – lo hanno detto persone che stavano là, sedute al tavolo”. La figlia di Cicciotto ‘e mezzanotte non racconta cosa rispose Gianluca. Ma la scelta che fece, ormai, è nota da anni. Preferì seguire le orme mafiose del papà, una decisione che gli ha negato la libertà, gli anni della spensieratezza, costringendolo in un carcere.

“Francescone intermediario per le estorsioni”

Tra gli imprenditori che gli esponenti del clan dei Casalesi avrebbero taglieggiato ci sono anche tre fratelli, originari della provincia di Napoli, che da anni fanno business nell’area industriale tra Carinaro e Gricignano.

La mafia dell’Agro aversano avrebbe costretto questi germani a versare almeno 10mila euro per ogni capannone che avevano realizzato e concesso in locazione a terzi. A dare l’ordine di sottoporli a pizzo sarebbe stato Giovanni Della Corte. Chi materialmente, dice la Dda di Napoli, batteva cassa, invece, era Salvatore De Falco. Quest’ultimo, però, non incontrava direttamente le vittime, ma un loro intermediario: si tratta di Biagio Francescone, volto già noto alle cronache locali: era stato coinvolto in un’altra inchiesta, coordinata dal pm Luigi Landolfi, nel quale gli si attribuiva l’ipotizzata intestazione fittizia di beni riconducibili a Camillo Belforte (figlio del capoclan Domenico). Da tale accusa, però, è stato assolto in primo grado. Tornando all’estorsione commissionata da Della Corte, Francescone non solo, sostiene l’Antimafia, aveva fatto da intermediario tra chi chiedeva il pizzo e le vittime, ma avrebbe svolto, attivamente, “il ruolo di consulente” proprio di Della Corte, veicolando le minacce agli imprenditori. L’attività investigativa ha fatto emergere anche che i businessman attivi tra Carinaro e Gricignano erano sottoposti ad estorsione anche al gruppo mafioso riconducibile ai Sestile.

L’agguato a Manno dopo il no al pizzo

L’indagine della Dda che ha puntato a smantellare le nuove strutture che si erano date i gruppi Schiavone e Bidognetti sarebbe riuscita anche a svelare il movente dell’agguato che riguardò l’imprenditore Aureliano Manno, attivo nel settore del pellame. Nell’aprile dell’anno scorso, Nicola Garofalo, alias Badoglio, e Angelo Zaccariello, avrebbero provato a spillargli denaro. L’uomo d’affari però rifiutò di pagare. E al diniego fece seguito, ha ricostruito la Procura, il suo “ferimento, mediante l’esplosione di due colpi di arma da fuoco alla gamba sinistra”.

Il raid di piombo si verificò il 15 aprile 2021 a Carinaro (nella foto l’edizione di Cronache che riportò la notizia), a pochi passi dallo stabilimento di Manno. L’imprenditore scese dalla sua vettura, ferma a bordo strada, i malviventi lo avvicinarono e fecero fuoco per poi dileguarsi (venne colpito al polpaccio). A Garofalo e a Zaccariello non viene contestato l’aver sparato a Manno, ma, secondo gli investigatori, quell’agguato è la conseguenza diretta del rifiuto della vittima a pagare il pizzo. Le persone che si resero fisicamente protagoniste dell’agguato non sono state ancora individuate.


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