MILANO – In prima linea dal primo giorno. Francesco Passerini, sindaco di Codogno, in provincia di Lodi, è un fiume in piena quando racconta al telefono i primi 50 giorni di battaglia al coronavirus. Tanti sono passati dal 21 febbraio. “Non sarà una Pasqua come le altre. Dobbiamo continuare a resistere, andiamo avanti. Per carità, il furbo c’è ma ringrazio davvero i miei concittadini. Siamo riusciti a contrastare un’ondata devastante che avrebbe potuto travolgere il territorio. I primi giorni, i numeri erano impressionanti. Io una cosa del genere non l’ho vista neanche in un film dell’orrore. Non dimenticherò mai: ambulanze avanti e indietro, da tutte le parti della Lombardia, sembrava la A1 delle ambulanze. Se avessero bombardato, non avremmo visto forse questo effetto angoscia che non auguro a nessuno”. “Sicuramente, ne usciremo”, dice con il groppo in gola.
DOMANDA Sindaco, che cosa le lascia in eredità questo periodo?
RISPOSTA Cinquanta giorni sono tanti. Però dalle risposte date e da tutta una serie di comportamenti dei primi giorni, credo che il nostro territorio abbia metabolizzato e messo a sistema tutta una serie di procedure che oggi, forse in alcuni casi, ci sembra di vivere una lontana normalità in questo periodo che di normale non ha veramente nulla. I numeri continuano, fortunatamente, ad essere positivi. I nostri cittadini, più di chiunque altro, non vedono l’ora che finisca. Ma, finché l’emergenza non termina, non si può nemmeno immaginare di tornare alla normalità. Troppi morti.
D. Le ha fatto male sentir parlare di Codogno come Wuhan italiana?
R. Di idiozie ne ho sentite tantissime, purtroppo. Ne vediamo sempre troppe sui social. Diverso è stato quando siamo stati additati dal premier Giuseppe Conte. È una brutta sensazione, critiche totalmente immotivate. ‘Cornuto’ e ‘mazziato’? Anche no. L’ospedale di Codogno ha gestito subito la situazione con la migliore gestione possibile in una condizione di totale emergenza. Poi noi lo pensavamo da subito, ma oggi credo che sia chiaro che Mattia non era il ‘paziente 1’ ma è stato il primo certificato. Ci sono state molte altre persone contagiate, chi magari senza sintomi, chi è stato male e chi, purtroppo, non ce l’ha fatta. La nostra comunità fin da subito ha rispettato le regole quando, a pochi chilometri di distanza, qualcuno, come Giuseppe Sala e Giorgio Gori, diceva: siete matti, andiamo fare gli aperitivi, proviamoci, venite a trovarci. Qualcuno del matto me l’ha dato, ce l’ha dato. Non lo nego.
D. Comunque, il 38enne Mattia è guarito e ha avuto una bimba. L’ha chiamato?
R. Sì, ci siamo sentiti. Lui ha vinto una battaglia lottando come un leone. Mi auguro che inizi veramente prima possibile un percorso di felicità con la famiglia e la bimba. Sperando che arrivi presto il momento di parlare di tutto questo come di un brutto, lontano ricordo.
D. Perché, secondo lei, nella Bergamasca non è stata fatta la zona rossa come da voi?
R. È una domanda da un milione di euro, non lo so. Posso dire che, per quanto riguarda noi, nessuno immaginava che il 7 marzo ci fosse l’apertura, sinceramente. La zona rossa è stata fondamentale come tutte le azioni messe in campo per affrontare da subito l’emergenza. Non voglio immaginare che cosa sarebbe potuto succedere se l’avessimo sottovalutata, visto già il bilancio drammatico purtroppo registrato.
D. E ora qual è la situazione dei contagi?
R. I numeri sono abbastanza positivi per quello che è il trend. Speriamo che vada avanti così. Abbiamo avuto diverse giornate a zero e, quando ne abbiamo, registriamo 1 o 2 casi in tutta la zona rossa.
I sacrifici pesanti ad oggi hanno un riscontro, non bisogna mollare.
Luca Rossi (LaPresse)