Sono vissuto abbastanza per ricordarmi del gioco del calcio e dei fattori, semplici e genuini, che concorrevano a farne lo sport più bello e praticato del mondo. C’era chi sceglieva i colori del club che portava il nome della propria città oppure della terra nella quale viveva o dove si era nati, e chi sceglieva un campione e di conseguenza diventava tifoso del team nel quale quello militava. Andare allo stadio era un rito domenicale, un fenomeno sociale collettivo, la passione dei tifosi un caso sociologico da studiare. In Televisione la domenica sportiva e per radio “Tutto il calcio minuto per minuto” non avevano rivali per numeri di ascolto.
Insomma il calcio, come il ciclismo, era uno sport popolare che si alimentava con i biglietti e gli abbonamenti che i tifosi garantivano alla loro squadra del cuore. Anche allora i calciatori erano considerati dei divi e dei privilegiati, pagati profumatamente dai patron delle società, quasi sempre facoltosi imprenditori e tifosi anch’essi del loro club. Vincere uno scudetto rappresentava una meta ambita, addirittura quasi irraggiungibile per le cosiddette squadre di provincia che non potevano certo competere con gli squadroni delle grandi e ricche metropoli (in particolare quelle del Nord).
Quello sport manteneva in tal modo una propria identità popolare, ed assumeva, in caso di affermazione sportiva, finanche i connotati e le valenze di un evento riparatore per i ceti meno abbienti e le regioni più povere del Belpaese. Il sano campanilismo sportivo spesso sfociava in scontri violenti. Dietro ai professionisti c’era tutto il movimento calcistico di base, rappresentato da una miriade di società dilettantistiche. Migliaia di praticanti e tesserati onoravano “Eupalla”, la dea del calcio, uscita dalla immaginifica e colorita prosa di un grande giornalista sportivo: Gianni Brera.
Un popolo, come quello italiano, scarsamente animato da spirito patriottardo, trovava nella propria nazionale di calcio, un momento di unità e si commuoveva al suono dell’inno di Mameli, tripudiando per la vittoria e polemizzando esacerbatamente per la sconfitta. Addirittura si visse profonda costernazione nazionale in occasione della sconfitta subita dagli azzurri, ai mondiali d’Inghilterra del 1966, quando fummo eliminati dalla sconosciuta squadra dalla Corea del Nord. Insomma: il calcio era una cosa che il popolo prendeva sul serio.
Era divenuto un fenomeno di costume, caratterizzante l’indole stessa degli abitanti della Penisola. È su queste basi popolari che in molti Paesi europei si è sviluppato il calcio moderno, quello che trae i proventi dai diritti televisivi e dalle aliquote degli incassi delle partite tra i partecipanti alle coppe europee. Un piatto molto ricco quello dei proventi tv, degli introiti provenienti della vendita di gadget e la pubblicità che grandi imprese affidano alle squadre. Questo fiume di danaro ha reso marginale l’apporto economico della vendita dei biglietti. Se la gestione economica della squadra non dipende più dalla presenza e dalla partecipazione dei tifosi, questi ultimi diventano marginali in termini di importanza.
Se lo sport si allontana dagli spettatori, diventa uno spettacolo artificioso, imbastito per l’emittenza televisiva e per le quotazioni in borsa delle società che gestiscono le squadre di calcio. È in questo brodo di cultura, più vicino all’affare che alla diffusione della pratica sportiva, che è maturata l’idea di creare una Super Lega tra le dodici squadre più forti d’Europa. Un campionato europeo tra le aristocrazie del pallone, i potentati e gli interessi economici che ruotano intorno ad una tale operazione.
Non a caso la banca d’affari JP Morgan aveva offerto suon di miliardi in termini di finanziamento, alle partecipanti del super campionato europeo. Cifre da capogiro, che avrebbero gratificato le società di gran lunga meglio di quanto queste stesse ricavano dai fondi messi a disposizione della UEFA (lega calcio europea) per le attuali competizioni internazionali. I tifosi inglesi hanno cominciato a protestare e così mano a mano si sono sfilate dal gioco prima le compagini della Premier league, poi quelle italiane ed il progetto, alla fine, è naufragato.
Se il calcio vorrà mantenere ed accrescere la dimensione economica finanziaria, per coprire la follia dei costi di acquisto dei top player e gli ingaggi destinati ai medesimi, la mossa fatta dagli aristocratici del pallone è da considerarsi solo intempestiva perché, prima o poi, la questione si riproporrà. Se invece il calcio vorrà recuperare l’identità dello sport e degli interessi sportivi, la manovra è da considerarsi fallita miseramente. Insomma, forse per qualche anno ci lasceranno ancora la possibilità di sognare che Davide possa battere Golia a suon di goals, facendo trionfare lo sport.
Posto che legittimamente ognuno avrà la propria idea su quale dei protagonisti di questa vicenda sia più assimilabile a quelli dell’opera di Sergio Leone, è abbastanza chiaro che le cose siano ormai andate troppo avanti perché se ne possa uscire senza che nessuno si faccia male. La mancanza di una ricomposizione renderebbe le elezioni lo sbocco più probabile e, nelle condizioni attuali, si tratterebbe davvero di un salto verso l’ignoto.