Ecomafie, sorveglianza speciale per Cipriano Chianese: è ancora pericoloso

E’ stato condannato per associazione mafiosa e per essere stato un elemento cardine del sistema di smaltimento illegale di spazzatura gestito dal clan dei Casalesi

PARETE – È ancora socialmente pericoloso. E per tale ragione la misura di prevenzione personale richiesta per lui dalla Dda di Napoli e disposta dal Tribunale di S. Maria C.V. nel 2023 (ribadita, poi, dalla Corte d’Appello lo scorso gennaio) è stata ora confermata. Di chi parliamo? Di Cipriano Chianese, 73enne, avvocato e uomo d’affari legato al clan dei Casalesi.
La difesa del colletto bianco di Parete aveva presentato ricorso in Cassazione per ottenere l’annullamento dell’obbligo di soggiorno per 18 mesi a cui era stato sottoposto, ma gli ‘Ermellini’ lo hanno respinto. Il no è arrivato a giugno, le motivazioni sono state pubblicate giovedì scorso.
Chianese era stato detenuto dal 2010 al 2022 per il reato di associazione mafiosa. La sua pericolosità sociale era già stata riconosciuta dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con decreti nel 2008 e nel 2012.
Con il ricorso in Cassazione, Chianese, tramite i suoi difensori, aveva contestato la mancanza di una motivazione concreta sulla persistenza della sua pericolosità sociale, lamentando che la Corte d’appello di Napoli si fosse limitata a una valutazione retrospettiva della sua biografia criminale senza considerare il periodo di detenzione e il conseguente percorso rieducativo. La Cassazione ha ritenuto le doglianze del ricorrente non consentite. La legge, infatti, ammette il ricorso per Cassazione solo per violazione di legge, escludendo il sindacato sulla motivazione, salvo casi di motivazione inesistente o meramente apparente. La Cassazione ha ribadito che l’Appello di Napoli aveva motivato adeguatamente la persistenza della pericolosità sociale di Chianese, basandosi su elementi concreti e specifici, tra cui la stabilità del vincolo associativo mafioso e la mancanza di un’effettiva risocializzazione durante la detenzione.
La Corte di Napoli, trovando d’accordo, ora, anche la Cassazione, aveva evidenziato che il contributo di Chianese al clan dei Casalesi era stato stabile e di vertice, non meramente occasionale, configurandosi come un’organizzazione del sodalizio criminoso con un ruolo cruciale nello smaltimento illecito dei rifiuti.
La valutazione dei giudici di secondo grado aveva tenuto conto anche del ritorno di Chianese a Parete dopo la scarcerazione, interpretato come un segnale della mancata dissociazione dal clan. Ricostruzioni che per gli ‘Ermellini’ sono giuste.
Chianese, difeso dagli avvocati Emilio Martino e Giuseppe Stellato, nel 2021 ha rimediato una condanna definitiva a 18 anni per associazione mafiosa. Avvocato e imprenditore, gli investigatori lo hanno tracciato come uno dei protagonisti della tragica pagina campana riguardante le ecomafie. Il professionista ha avuto un ruolo cardine nel sistema di smaltimento illegale di rifiuti gestito da Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘o mezzanotte. Chianese è stato pure dichiarato responsabile del disastro ambientale della discarica Resit di Giugliano in Campania.
Il 73enne di Parete venne già arrestato nel 1993 e poi assolto. E dopo quel primo suo incrociare la macchina della giustizia, si candidò nel 1994 alla Camera con Forza Italia.
Recentemente la Cassazione gli ha confiscato il 40 percento di una villa situata a Sperlonga, intestata a Filomena Menale, ma moglie.

Al palo il processo sui rifiuti interrati nell’Agro aversano

CASAL DI PRINCIPE (gita) – Materia complicata da indagare. E quando gli investigatori riescono a raccogliere elementi tali da convincere gli inquirenti a tentare la strada del processo, arrivare a una sentenza non è mai semplice.
Far luce sulle pagine buie della Campania, dove parte dei suoi territori hanno accolto, tragicamente, tonnellate e tonnellate di rifiuti, è un’attività complessa. I tempi per arrivare a un verdetto definitivo per Chianese, tra indagini rallentate, poi chiuse e faticosamente riaperte, ne sono la dimostrazione. E se nel caso del colletto bianco di Parete alla fine la sentenza è comunque arrivata, per altre indagini che si sono dedicate sostanzialmente sullo stesso tema, sembra ormai un’utopia.
Tra queste c’è quella che ha portato a giudizio Francesco Schiavone Cicciariello, il capoclan Francesco Schiavone Sandokan e suo fratello Valter, Nicola Pezzella, ex genero del pentito Carmine Schiavone (cugino di Sandokan), e Luigi D’Ambrosio, collaboratore di giustizia. Sono accusati di aver interrato quintali e quintali di rifiuti. Buche riempite di immondizia. Condotte che negli anni hanno evidenziato la barbarie del clan dei Casalesi: un’organizzazione cinica a tal punto che, per fare soldi, è stata disposta a inquinare il suolo dove abitavano con le loro famiglie. Sono passati anni dall’inizio del dibattimento, ma l’iter procede a singhiozzo.
La zona dove avrebbero sotterrato i rifiuti si trova in località Marotta. Ad innescare l’inchiesta sono state le testimonianze di alcuni pentiti. Le operazioni di scavo, seguendo le indicazioni dei collaboratori, confermarono la presenza di 150mila metri cubi di rifiuti speciali pericolosi, in particolare di materiali come stagno, berillio e idrocarburi pesanti, che avrebbero contaminato la falda acquifera facendo aumentare la concentrazione di sostanze tossiche. Dopo gli scavi, furono posti sotto sequestro numerosi pozzi da cui privati cittadini prelevavano l’acqua per irrigare la terra o per il consumo domestico. Uno scenario inquietante, ma che rischia di non avere nessun colpevole. E’ probabile che il tutto vada in prescrizione. Gli avvocati degli imputati, infatti, nel corso dell’ultima udienza, hanno sostenuto che i reati sono sostanzialmente iniziati oltre 30 anni fa, protraendosi nel tempo, fino al 2013, quando vennero effettuati scavi e rinvenuti anche alcuni fusti a Casal di Principe. Sono trascorsi, quindi, già 11 anni da quando le condotte criminali contestate sono cessate e non c’è ancora una sentenza. Pensare di arrivarne ad avere una irrevocabile appare davvero impossibile.

L’immondizia dal nord per riempire le cave del sud

CASAL DI PRINCIPE (gt) – Un’altra inchiesta che ha dimostrato quanto sia complicato dimostrare la colpevolezza di imputati portati a processo da indagini sul mondo dei rifiuti è datata 2003: il lavoro della Dda aveva coinvolto, in prima battuta, circa 100 inquisiti. Dieci di loro finirono in cella, nove ai domiciliari, e venti impianti di trattamento di rifiuti vennero sequestrati. Quell’attività investigativa aveva acceso i riflettori su un presunto traffico illecito di rifiuti che dal Nord sbarcava in Campania per riempire cave e terreni. Nel 2007 il giudice Pasquale Paolo Laviano diede il via al processo per 41 imputati. E nel 2021 arrivò la sentenza di primo grado: tutti assolti dall’accusa di associazione a delinquere e prescrizione per gli altri reati contestati (che vanno dalla gestione abusiva di rifiuti al disastro ambientale). Tra i non colpevoli c’erano Raffaele Diana (a processo ora per un’indagine su un traffico illegale di carburanti) ed Elio Roma (da martedì ai domiciliari per estorsione). Gli inquirenti partenopei avevano sostenuto che gli imputati avevano messo in piedi un sistema criminale in grado di muovere illecitamente circa 40mila tonnellate di rifiuti per un giro d’affari di 3 milioni e 300mila euro. La ‘monnezza’ che arrivava dal Settentrione, secondo l’accusa, veniva solo fittiziamente lavorata presso impianti autorizzati. Invece, sarebbe andata a finire direttamente nelle cave e nei terreni controllati da alcuni degli imputati. Tesi respinta dal tribunale di Napoli.
Pretendere che ogni inchiesta, indipendentemente dal tema affrontato, si traduca sempre in condanne, sarebbe barbaro e da forcaioli. Ma quando gli inquirenti puntano a far luce sul tema rifiuti (spendendoci tante energie), spesso il percorso avviato si conclude con un nulla di fatto. Come è successo nel 2013 con l’inchiesta sul disastro rifiuti in Campania, durante gli anni dell’emergenza, caratterizzati da ecoballe stoccate e abbandonate per troppi mesi, discariche chiuse e inceneritori al palo. È accaduto anche più recentemente con l’indagine sull’ipotizzato disastro ambientale connesso alla gestione di Parco Saurino a Santa Maria La Fossa da parte di manager e politici che avevano orbitato intorno al Consorzio Ce4.

© RIPRODUZIONE
RISERVATA

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome