Fate silenzio su Said: rispetto e niente spot

Deontologia giornalistica ci impone – non lo dico io, sta scritto proprio su quelle quattro carte messe in fila che regolano la professione in Italia – di evitare di trattare argomenti come il suicidio per una serie di questioni che vanno dal rischio emulazione (effetto Werther) al rispetto della dignità altrui. Ma siccome anche Andrea Scanzi (si legge sulla sua bio Facebook “La rockstar del giornalismo italiano” e ci aggiungerei anche la rockstar del vaccino che avanzava) sentiva l’esigenza di spiegarci perché l’Italia è un Paese di mer… a causa del suicidio del giovane Seid Visin, allora permettetemi due parole. Non su Sedin. Su Scanzi che, nel commentare la lettera di qualche mese fa di Visin, prende la foto del ragazzo con la maglia del Milan, il ragazzo morto, e ci mette tanto di loghetto sotto con la sua faccia che sorride. E già questo dovrebbe farci riflettere sul senso di una prosopopea fatta di paroloni e commenti sprezzanti in cui si conclude con questa frase ad effetto: “Questo è omicidio. Il colpevole? La cattiveria di questi nostri tempi schifosi e osceni”.

La rockstar del giornalismo italiano, quindi, con la formula del “tutto fa schifo ma io lo dico quindi me ne tiro fuori perché io sono fortissimo e buonissimo” ci spiega come l’Italia di oggi sia paragonabile al Sudafrica dell’Apartheid approfittando di un dramma umano di un ragazzo di cui fino a ieri probabilmente ignorava l’esistenza, prendendone la sua foto in casacca rossonera e apponendoci il suo faccione-timbro come un qualsiasi prodotto editoriale social di cui poi si misura l’engagement.
L’Italia che fa schifo, in questo momento, non è l’Italia dei razzisti che faceva schifo già prima e – diciamolo – è anche un po’ anacronistica. C’è un’altra Italia che fa schifo, me lo consenta Scanzi che a confronto del suo essere rockstar io del giornalismo sono il bassista sfigato che fa jazz nei sottoscala. Ed è l’Italia che banalizza il dolore. Ancor peggio se lo fa per promuovere il suo becero e spicciolo storytelling.

Dietro un suicidio c’è sempre un mondo – interiore – che non si può spiegare. Che non si può sintetizzare. Seid Visin, che aveva sì scritto una toccante lettera che è un vero e proprio atto di stigma nei confronti di un serpeggiante razzismo che avvertiva sulla sua pelle, non è però stato ucciso da nessuno. Non esistono i mandanti politici.

Ognuno nel suo dolore è solo. Seid, da quello che si apprende, era in cura da uno psicologo e chissà quanto profondo fosse il buio nel quale viveva ma una cosa è certa: non lo sappiamo noi. Non lo possiamo mai sapere perché oltre a scrivere qualche post toccante per fare incetta di like, di quel dolore così intimo non siamo a conoscenza. Probabilmente non ne erano pienamente a conoscenza nemmeno i genitori, che dal primo momento però hanno dichiarato che il razzismo con questa storia – questa brutta storia – non c’entra.

Avete mai affrontato un percorso di terapia? Avete mai sfidato i vostri mostri e i vostri tormenti? Vi siete mai resi conto che siamo tutti fallibili e che il rischio di crollare è dietro l’angolo?

Allora la verità è che noi davanti a un suicidio dobbiamo tapparci la bocca perché dei mostri che combatteva Seid nella sua personalissima battaglia di cui – ribadisco – non sappiamo assolutamente nulla non abbiamo idea. È il momento del rispetto e del dolore. Poi solo successivamente ricordatevi di fare le rockstar del giornalismo e quindi fate i giornalisti. Fate parlare i fatti, i numeri e le altre cose per raccontarci di un Paese razzista o meno, ma non fatelo sulla pelle e sul colore della pelle di Seid perché altrimenti non siete per niente così diversi da quelli che sponsorizzano i video di immigrati che delinquono per migliaia di euro prima di presentarsi alle urne. Anzi, siete veramente molto, molto simili a loro.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome