Giovanna, Maria e le altre. La lunga scia di sangue dei femminicidi a Caserta

In aumento i casi di violenza, ma finalmente si denuncia di più

SAN FELICE A CANCELLO – Novantaquattro. Nel macabro elenco che si usa tenere, come se fare la conta della violenza in qualche modo la contenesse, quello di Eleonor Toci è il nome numero 94: tanti i casi di femminicidio in Italia dal 1° gennaio di quest’anno, stando ai dati dell’Osservatorio nazionale di Non Una di Meno. Stringendo il campo di analisi, la tragedia di San Felice a Cancello è il primo caso del genere nel 2024 in provincia di Caserta (che nel 2108 aveva conquistato il triste primato di provincia più violenta dello Stivale, con ben 9 femminicidi), ma non l’unico per il capoluogo della Valle di Suessola, che per altre due volte ha vissuto il dolore e lo choc di una morte simile. Il 9 dicembre del 2012 fu Polvica a piangere per Giovanna De Lucia, uccisa a coltellate dal marito Giovanni Venturato perché aveva ‘osato’ lasciarlo e tornare a casa della madre con i tre figli. Otto anni dopo, l’11 novembre del 2020, nella frazione Botteghino, è stata Maria Tedesco a perdere la vita per mano del marito, Michele Marotta, che le esplose contro 9 colpi di pistola per gelosia: la sera prima gli aveva confessato di avere un’altra relazione. Maria, Giovanna, Eleonor: tre storie diverse con tanti punti in comune, dalla giovane età, alla mano che ha spezzato le loro vite, al motivo che le ha condannate così prematuramente alla morte, ovvero relazioni di potere e violenza patriarcale di genere. Aguzzini gli uomini che, nella quasi totalità dei casi, prima di arrivare a uccidere molestano, perseguitano, insultano, affamano, picchiano, stuprano.

Stando ai dati forniti dal comando provinciale dei carabinieri di Caserta, dal 1° gennaio al 1° settembre di quest’anno gli episodi di violenza di genere denunciati in Terra di Lavoro all’Arma sono 527: in media 43,91 al mese, in pratica 1,4 al giorno. L’applicazione del Codice Rosso ha permesso ai carabinieri guidati dal colonnello Manuel Scarso di arrestare 140 persone e di denunciarne 473. Fa riflettere il confronto con l’anno precedente: in tutto il 2023 gli episodi denunciati sono stati 334, gli arresti 85, le denunce a piede libero 298. Numeri che se, da un lato, fotografano un trend di crescita dei fenomeni violenti, dall’altro dimostrano che, se si denuncia, è perché c’è una maggiore consapevolezza del problema.

Sono fortunatamente lontani i tempi in cui uno schiaffo “poteva capitare”: oggi le donne, grazie al grande lavoro fatto dalle forze dell’ordine, dai mezzi di comunicazione, dalla politica più sensibile ai temi di genere, sanno che no, non deve capitare. Nemmeno una volta. E quando capita esiste tutta una rete pronta a sorreggerle. Certo, la strada è ancora lunga, sullo sfondo esistono anche denunce ritrattate o misure di prevenzione che non si rivelano abbastanza efficaci, tant’è in molti casi a finire nelle maglie della giustizia sono persone che già avevano precedenti penali connessi a violenze, persecuzione, stalking, abusi nei confronti delle loro attuali e passate compagne, mogli, madri. L’appello, che da più parti giunge in queste ore alla politica, alle istituzioni, alla giustizia, è di continuare a lavorare insieme per cambiare la cultura del nostro Paese, per non arrivare al 25 novembre, giorno contro la violenza sulle donne, solo per elencare le persone che non ci sono più e i tantissimi orfani. E’ ora che le donne contino da vive, non che siano contate da morte.

La mascolinità tossica dà sempre segnali

di Domenico Marotta*

Un uomo insulta, maltratta o addirittura arriva ad uccidere: di fronte a che tipo di essere umano ci troviamo? Sicuramente ad un controllante, il quale teme la perdita della propria autorità e del proprio dominio, e pertanto esige totale controllo sugli altri membri della famiglia. Uomo incapace di concepire l’autonomia altrui, l’abbandono come una minaccia e per questa ragione sviluppa una dipendenza nei confronti delle donne a cui si lega, ricercando una continua approvazione e avendo la necessità di un continuo rinforzo di autostima dall’esterno. Che, qualora non si verificassero o in caso di critica, si abbandona a reazioni rabbiose che sfociano in alcuni casi in violenza. Tende psicologicamente ad incorporare l’idea della donna in quel rapporto immaginato, che conduce ad un desiderio ossessivo di controllo nelle relazioni, un’eccessiva gelosia e la necessità di dominare la compagna reagendo con comportamenti violenti, in proporzione alla percezione, anche solo presunta, di perdere l’oggetto del suo affetto, utilizzando la punizione come mezzo per ristabilire il proprio dominio un agendo con violenza. I fattori di rischio, il cui minimo comune denominatore è la mascolinità tossica sono: l’insieme di credenze culturali, stereotipia di genere, che porta a considerare la donna come un oggetto privo di identità e di autonomia e soprattutto, privo del diritto di essere considerato un essere umano. Le costanti ambientali che ricorrono negli episodi di femminicidio sono: un grado di scolarizzazione basso, violenze a cui l’uomo ha subìto o assistito quando era bambino, l’abuso di alcol, una condizione di disparità di genere oltre l’avere accettato, come fatto culturale, la violenza ed il ricorso alla violenza. Mentre quelle psichiche sono: possibili disturbi mentali, come depressione grave o schizofrenia, ma anche disturbi di personalità antisociali, borderline o narcisistici che possono mostrare un senso di inadeguatezza così intenso da spingere a commettere violenza contro la propria compagna. Il femminicidio è quindi spesso il risultato di un mix complesso di insicurezze personali, difficoltà nel gestire le relazioni intime e nel controllare i propri impulsi. Il comportamento acquisito comunque si manifesta in vari modi: obbedire, sottomettersi, compiacere gli altri, incolpare, aggredire. Questi comportamenti inoltre includono offese, denigrazioni, umiliazioni, isolamento sociale, limitazione della libertà. Infatti la vittima riceve costanti insulti riguardanti il proprio aspetto o la propria intelligenza e viene spesso ridicolizzata in pubblico davanti ad amici, parenti o sconosciuti. Questi comportamenti non si limitano a singoli episodi, ma si sviluppano nel tempo con un crescente livello di gravità. Inoltre, presentano spesso un andamento ciclico dove gli episodi di aggressione e vessazione si alternano a momenti di tranquillità e presunto benessere. La violenza psicologica comprende anche le accuse infondate da parte dell’aggressore, che attribuisce ingiustamente alla vittima responsabilità che non ha. A ciò si aggiungono le minacce di conseguenze dirette nei confronti della vittima, dei suoi cari e della sua cerchia sociale, che rendono la relazione tossica e manipolativa. Rompere la spirale di violenza fisica, sessuale o psicologica è possibile, ed è innanzitutto un obiettivo socio culturale. Sebbene gran parte delle vittime di violenza sappiano che la relazione in cui sono coinvolte sia potenzialmente pericolosa e dovrebbe essere interrotta, possono averne una percezione idealizzata e distorta. Ciò può impedire che siano consapevoli dei segnali di allarme o minaccia e si attivino di conseguenza per proteggersi, quindi l’aiuto del gruppo sociale diventa indispensabile, nessuno di fronte al palesarsi di situazioni su indicate. Le donne vittime di violenza hanno la possibilità di rivolgersi ai numerosi centri antiviolenza presenti sul territorio nazionale, nei quali possono ricevere supporto psicologico, legale e logistico. Occorre, bandendo ogni forma di violenza ma con una dolce ed inarrestabile proposta, pensare e costruire, una nuova realtà in cui siamo consapevoli del passato della nostra società che ha messo al primo posto o il potere, il denaro o una fama folle, ma che invece sia centrata sulla consapevolezza che abbiamo un solo titolo per avvicinarci al prossimo, in qualunque tipo di rapporto di relazione: il rispetto come titolo minimo e l’amore come titolo massimo.

  • Dottore in Scienze
    e tecniche psicologiche

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