Giustizia, referendum dimenticato

“Italiani, brava gente”. Così recita un celebre aforisma che per decenni è stato convincimento comune del popolo dello Stivale. Un motto creato ad arte del neo realismo cinematografico negli anni del primo dopo guerra. In quel tempo i nostri genitori, usciti malconci dalle piaghe del secondo conflitto mondiale, dovettero rimboccarsi le maniche per ricostruire la Nazione. Era, quello, un popolo che aveva patito i disagi morali della sconfitta, la disillusione di aver creduto e seguito Benito Mussolini, duce del Fascismo, lungo la via della mistica nazionalista, del ritorno all’antica grandezza di Roma e del suo dominio nel mondo. Sostanzialmente un popolo ancora con larghissimi strati sociali semi analfabeti che vivevano una dimensione rurale, scarsamente adeguata al progresso tecnologico. E tuttavia quegli stessi italiani si diedero da fare e nel volgere di pochi anni, costruirono il “miracolo economico” con alla guida del governo Alcide De Gasperi e con Luigi Einaudi prima governatore della Banca d’Italia e poi presidente della Repubblica. Era quello lo Stato della “brava gente”, che mano a mano si sarebbe trasformata ed emancipata economicamente e culturalmente, perdendo però alcune caratteristiche di generosità e di tolleranza. L’ignoranza della Storia, ormai cancellata dai libri di scuola, ha disperso quei ricordi e quei buoni sentimenti. La Nazione ha assunto ben altre vesti sotto il profilo culturale e delle costumanze di vita, fino a giungere all’odio e al rancore sociale che si manifesta nella cloaca massima dei social network. Un Paese afflitto da mali e problemi endemici, a cominciare dal Mezzogiorno che ancora sconta ritardi sia sul piano economico e sociale, sia su quello della consapevolezza e dell’uso dei diritti civici che pure la nostra Costituzione ci assegna. Restano diffusi lavoro nero, scarsa propensione a pagare le tasse, familismo amorale (che trasforma ogni centro di potere in una roccaforte clientelare e familiare). Tuttavia, uno dei problemi più gravi tra i tanti ancora irrisolti resta quello dell’amministrazione della “giustizia giusta”, dell’invasione di taluni magistrati nel deperimento della politica e della sua scadente classe dirigente ormai prona di fronte del potere di certe toghe. Una posizione di debolezza e di subalternità nei confronti di chi, alla fine, ha occupato spazi non dovuti arrivando finanche a condizionare, con l’azione giudiziaria a orologeria, gli esiti stessi del voto popolare. Basta poco affinché un semplice avviso di garanzia si trasformi in processo mediatico. Peggio ancora se l’inquisito di turno è un politico: allora la gogna è assicurata. Fa niente poi se si appura, dopo anni, che questi è estraneo ai fatti addebitatigli. Ormai la frittata è stata fatta! Una serie di forzature giuridiche di leggi inginocchiate al potere della magistratura, ha consentito, a quest’ultima, di agire con disinvoltura nella fase iniziale con lo strumento della carcerazione preventiva e l’uso di ipotesi di resto impalpabili, finanche estranee al codice penale, come il cosiddetto concorso esterno in associazione. Ci si aggiunga la persistenza della legge sui pentiti, che risale al secolo scorso, l’uso dei medesimi nella diretta disponibilità dei pubblici ministeri, ed il gioco è fatto. Non c’è nessuno in Italia per il quale non possa essere imbastito un processo se i pentiti sono strumento e fondamento dell’azione giudiziaria. E quando, a conclusione di un calvario personale, tutto viene considerato non vero, gli inquirenti sono immuni da qualsivoglia responsabilità, in nome del principio di autonomia della magistratura. Le carriere dei giudici scorrono per anzianità di servizio e…grazie alla notorietà che le toghe assumono nei processi ove hanno inquisito gente nota al grande pubblico. Si sa che la gestione dei benefici da concedere ai pentiti e il sistema stesso di protezione costa centinaia di milioni di euro al contribuente, ma a quanto questo esattamente ammonti non è dato sapere. Parimenti ignoti restano i costi per l’abuso delle intercettazioni telefoniche. Alla fine il sessanta percento dei processi si prescrive per carenza di risultanze istruttorie e non certo perché i termini dell’indagine siano brevi. Insomma: esiste un sistema fatto sulle nicchie di comodità e sulle abitudini dei pubblici ministeri che si proteggono anche nel caso in cui ci sia stata palese negligenza o imperizia. Cosa c’entri l’autonomia della magistratura con questa impunità non è dato comprendere, così come incomprensibili sono i sostegni della classe politica a questo stato di cose. Nessuno finora ha avuto tempo e coraggio per tipizzare (indicare ambiti e circostanze specifiche) il reato di concorso esterno: così ogni abuso rientra nella discrezionalità dei pm di turno e tocca all’accusato dimostrare che i pentiti mentono e non all’accusatore. Abbia allora il coraggio il popolo italiano di sottrarsi a questa barbarie giuridica e vada a votare, ne va della sua libertà.

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