La riforma della giustizia proposta dal ministro Marta Cartabia, per quanto di ampiezza limitata e poco incisiva sotto il profilo del raggiungimento del cosiddetto “giusto processo”, ha introdotto alcune norme che sembrano andare nella direzione auspicata. Certo non ha toccato aspetti decisivi riguardanti i nodi che intralciano la l’equilibrio tra accusa e difesa con un giudice terzo, della responsabilità civile del magistrato oltre che per dolo anche per negligenza ed imperizia, dell’uso smodato della carcerazione preventiva, della legislazione sui pentiti e del reato di concorso esterno che inverte l’onere della prova tra chi accusa e chi è accusato. Insomma: stiamo parlando di una riforma di piccolo cabotaggio che lascia fuori anche l’ordinamento giudiziario con la tanto auspicata separazione delle carriere. Tuttavia, per quanto minima essa si configuri, è comunque partita la solita lamentela dell’Anm (l’associazione nazionale magistrati) ed il piagnisteo della stampa allineata alle procure, quella per intenderci che da anni campa sulle veline e sulle rivelazioni di una parte dei togati, nel combinato disposto che funge da canovaccio per la macchina del fango. Insomma dopo una breve pausa di silenzio dovuta allo scandalo Palamara ed all’assoluzione del pm Paolo Storari che aveva inutilmente sollecitato l’apertura di un’inchiesta al procuratore capo di Milano, Francesco Greco, sulle vicende della “loggia Ungheria”, ovvero sul nesso tra politica (leggi Pd) e magistratura di sinistra per spartirsi gli incarichi di vertice nelle procure, le trombe hanno ripreso coraggio e fiato. La filastrocca è la stessa che viene sciorinata in tutte le circostanze: il mantenimento dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario che nel corso degli anni è stato invocato ad ogni stormir di foglia. Prerogative costituzionali quelle invocate ma che, via via, si sono trasformate nella piena ed assoluta immunità ed intangibilità per i giudici inquirenti e nel libero arbitrio nell’esercizio della giurisdizione. La pietra dello scandalo consisterebbe nella norma – già operante, dal primo gennaio – che vieta ai procuratori ed ai pubblici ministeri di tenere conferenze stampa all’esito dell’emissione di provvedimenti restrittivi a carico di persone indagate, senza tenere conto della loro presunzione d’innocenza, anzi presentandole come ree di illegalità accertate e certificate dagli impianti accusatori messi in piedi se non dalla portata e dal clamore suscitato dagli stessi provvedimenti. Secondo la norma Cartabia, mancando un chiaro interesse pubblico dal quale far discendere la necessità di avvertire preventivamente l’opinione pubblica, non sarà più possibile organizzare veri e propri incontri in pompa magna con i media che accreditino come già provate le accuse. Si tratta quindi di fare salvi gli interessi diffusi quando ricorre la fattispecie ma di vietare quei veri e propri show giornalistici ai quali abbiamo ripetutamente assistito nel corso degli ultimi anni laddove la conseguenza della spettacolarizzazione di arresti ed avvisi di garanzia, unitamente alle informative fornite alla stampa, si trasferivano direttamente sui giornali e nelle emittenti televisive come vere e proprie prove schiaccianti, elementi basilari per la gogna mediatica. Abbiamo assistito da parte di alcuni procuratori, che spendono la popolarità acquisita per farla valere accreditandosi per successivi incarichi di prestigio, a vere e propri comizi dai toni moralistici che trasformavano il magistrato in tribuno ed i provvedimenti da essi emessi in pietre miliari utili all’etica pubblica. A nessuno poi sarebbe importato che, dal giorno del comizio a pochi mesi dopo, gran parte di quegli indagati finissero prosciolti oppure dichiarati del tutto estranei ai fatti loro addebitati. Centinaia e centinaia di provvedimenti sfociati, al termine dei dibattimenti, nel riconoscimento di pochi, pochissimi colpevoli. Innanzi alla prospettiva di non poter più spacciare per prove certe i teoremi e le ipotesi accusatorie posti alla base dei dispositivi cautelari (quasi sempre sotto forma di carcerazione preventiva), ecco che ora insorgono sia i magistrati inquirenti sia quella stampa che per anni ci ha marciato sopra, caratterizzando la propria linea editoriale come un avamposto della pubblica morale. Insomma: il colpo per la premiata consorteria dei gazzettieri della morale a senso unico e dei pm orientati politicamente, è forte e si aggrappa alla “legge bavaglio”. Una norma di garanzia per gli indagati che viene spacciata come una sordina per gli inquirenti tenuti al massimo riserbo, pena sanzioni che finalmente sono indicate nel concreto. Certo i cuori ed i pensieri oggi vanno ai martiri della libertà in Ucraina, ma anche la nostra libertà trova una sua nuova tutela.
*già parlamentare