Ebbi modo tempo addietro di leggere un piccolo pamphlet intitolato “Cattolici e mercato: la grande polemica”. Vi era raccolto l’epistolario intercorso, negli anni ‘50 del secolo scorso, tra don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira. Il primo era stato il fondatore del partito popolare italiano con l’appello “ai liberi e forti”, il manifesto dei valori dei cattolici che desideravano intraprendere l’attività politica con un programma alternativo alla destra ed alla sinistra, ispirato alla dottrina sociale della chiesa ed in particolare alle risultanze contenute nell’Enciclica sottoscritta da Papa Leone XIII, valorizzando i principi di libertà e di solidarietà insiti nella società. In poche parole: un liberalismo popolare e non più d’élite, che fondeva il culto delle libertà civiche e politiche con il principio di autonomia e di gestione degli enti locali (comuni – province) chiamato sussidiarietà, in uno col principio delle libertà economiche liberali mitigate dalla solidarietà verso gli svantaggiati.
Il secondo, sindaco di Firenze, seguace di don Giuseppe Dossetti e del cattolicesimo democratico poi votato nel cattosocialismo, ispirato ad una visione dello Stato più centralizzata e presente anche nella vita economica della nazione. Idea, questa, contrastante per alcuni versi col cattolicesimo popolare di Sturzo tendente a fare della solidarietà il punto cardine dell’agire politico dei cattolici fino a spingersi in un’aperta simpatia con la sinistra italiana. Queste due scuole di pensiero confluirono e riuscirono, tra alterne vicende, dentro quel grande partito politico che Alcide De Gasperi chiamò Democrazia cristiana, un partito che dominò la scena politica per tutto il dopoguerra fino alle soglie del XXI secolo.
Questi diedero vita all’intenso scambio di lettere tra i due politici, Sturzo da poco ritornato dall’esilio al quale lo aveva costretto il Fascismo e La Pira dalla responsabilità di essere un personaggio noto ed influente dentro e fuori dalla Dc. L’occasione fu il licenziamento da parte di un grande azienda di un determinato numero di operai alla vigilia di Natale e più in generale dalla diversa concezione che i due avevano innanzi alle problematiche sociali. La Pira era indignato che alla vigilia di Natale l’azienda avesse messo fuori personale rendendo precaria la sorte delle famiglie, proponeva un intervento dello Stato che sopperisse al bisogno degli operai sostituendosi alle decisioni aziendali anche a costo di doverle imporre con coercizioni legislative.
Innanzi a questo problema Sturzo spiegava a La Pira che le libertà economiche (il mercato di concorrenza) erano di uguale pregio rispetto alle libertà politiche e civiche, che una società veramente democratica deve garantire ai singoli. Senza libertà economiche non potevano realizzarsi quelle politiche,perché intimamente connesse tra loro. Viceversa senza le libertà politiche ed istituzioni democratiche, che legiferassero per evitare soprusi nel campo economico, la libertà d’impresa si sarebbe ben presto trasformata nella libertà dei lupi di divorare gli agnelli. Quindi non dovevano mancare i presidi di solidarietà e di aiuto per i disoccupati ma nel rispetto delle autonomia imprenditoriali. Le due libertà era indivisibili.
Se lo Stato fosse intervenuto sostituendosi alla legge di mercato, interferendo impropriamente nelle decisioni dell’azienda, questa, prima o poi, sarebbe potuta andare in fallimento e chiudere i battenti. Insomma si scontravano due visioni di solidarietà ma divergenti nella valutazione della funzione e della potestà dello Stato. Purtroppo la visione di La Pira negli anni a venire avrebbe prevalso e lo Stato stesso sarebbe diventato imprenditore, pur senza osservare i canoni ed i rischi dell’imprenditoria tale che quelle aziende di sarebbero trasformate in produttrici di debito statale da accollare ai contribuenti sotto forma di tasse. Se in Italia circa diecimila aziende sono ancora partecipate e circa la metà, pur avendo un regime di economia assistita, sono deficitarie è perché la solidarietà estrema, che disconosce le regole poste a presidio delle libertà economiche, ha preso il sopravvento.
D’altronde lo Stato imprenditore pubblicizza le perdite e consente di privatizzare gli utili con grave danno caricato su tutta la società. Allorquando assistiamo agli interventi di Papa Francesco che esalta la solidarietà e condanna la logica dell’impresa e del profitto, ritornano alla mente quelle diverse visioni, quella liberale e quella che Bergoglio predilige, quella socialista. Orbene deplorare il governo Draghi per aver destinato il due percento del bilancio al sostegno delle spese militari, è compiere un atto demagogico e pericoloso innanzi alla necessità di poter difendere la nazione e con essa i deboli e gli oppressi. La carità disarmata e la solidarietà senza senno non sono opportune ne’ realistiche. Un Papa queste cose dovrebbe saperle.