Il Black Friday della violenza di genere

Foto Fabrizio Corradetti/LaPresse

Se il marketing così come lo conosciamo oggi nasce in America (ed è così: le prime istituzioni in tal senso nascono negli States a cavallo tra il 1910 e il 1920), il Black Friday è sicuramente il suo esempio meglio riuscito: per collocazione temporale (il giorno dopo la tradizionale Festa del Ringraziamento statunitense e a ridosso dal Natale), per concentrazione di offerta, per opportunità percepita di occasione. Anticipato quest’anno dalla sua versione cinese – il Single Day 2019 di Alibaba ha sfondato ogni record mai registrato di vendita con 38,37 miliardi di dollari spesi sulla piattaforma in un solo giorno – il venerdì nero (e la sua estensione nell’arco di una settimana) è ormai, complice il web, una consuetudine acquisita anche da noi italiani e europei. Certo, la ressa più che reale è digitale, con alcuni giganti come Amazon capaci di incollare con la tecnica delle offerte lampo e/o a tempo migliaia di persone a pc e smartphone. Ma arrendiamoci al dato di fatto: il Black Friday ormai fa parte del nostro calendario, così come i saldi estivi e invernali.

Dicevamo che la chiave del suo successo è da cercarsi nella concentrazione delle attività pubblicitarie verso un solo momento, ben definito: creare l’attesa verso quel singolo istante in cui cogliere l’occasione della vita. L’acquirente ci arriva carico, affamato, pronto ad avventarsi verso l’evento e, dopo l’acquisto, la neuroscienza ci dice che (tra l’altro) si sente “rinfrancato nell’autostima e partecipe al rito collettivo”.

Il 25 novembre, esattamente 5 giorni prima del Black Friday, è andata invece in scena sui social network la celebrazione della stigmatizzazione della violenza di genere. L’occasione è data dalla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. I meccanismi scattati sul web, che ci crediate o no, non sono per niente dissimili da quelli sopra elencati per gli sconti. In un solo giorno dell’anno (forse due se vogliamo includerci anche l’8 marzo) tutto quello che si poteva dire sulla lotta alla violenza sulle donne è stato detto. Tutta la sensibilità del popolo è stata espressa. Chi (di buon cuore, sia chiaro) ha espresso il suo pensiero sul tema, si è sentito partecipe del flusso e rinfrancato nell’anima. Proprio come dopo aver acquistato in saldo il venerdì successivo.

Ma il tutto si chiude lì. Pronti ad attendere il nuovo argomento del giorno e disquisire su quello. E a leggere abomini, magari su gruppi pubblici dei nostri social preferiti, in cui sessismo, machismo, patriarcato la fanno da padroni.

Che questa attenzione sulla tematica, effimera e fine a sé stessa, inneschi meccanismi di questo tipo nella popolazione è un problema collaterale, non centrale. Che invece colga quanti, ad ogni livello del vivere della società civile, hanno compito di legiferare in tema, di educare culturalmente la cittadinanza verso una nuova forma mentis, di difendere e tutelare le donne, ecco, quello è grave.

I numeri dell’Istat rilasciati (e quelli con senno) il 25 novembre parlano chiaro, anzi, chiarissimo. Nell’Anno di Grazia 2019 “quasi il 40% della popolazione italiana ritiene una donna in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole” e che “il 23,9% pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire”. Il rapporto è finito in mano al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che dopo averne preso visione ha parlato senza mezzi termini di emergenza nazionale.

Insomma, troppo. Ed è troppo facile liquidare l’argomento con una foto su Facebook macchiata di rosso.

Enrico Parolisi, esperto di comunicazione digitale

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