NAPOLI – Il grigio. Il bianco del perbenismo costruito a tavolino miscelato all’anima nera della mafia. Pistole e ventiquattrore viaggiano sullo stesso binario, siedono nello stesso vagone. Hanno mire comuni, si confondono. E a legarle ci sono relazioni silenziose, nascoste, consolidate nel tempo. Farle emergere è tra i principali obiettivi della Dda. Per riuscirci, per trattare il grigio, però, serve equilibrio e fede nello Stato. E dagli occhi e dagli atteggiamenti di Maurizio Giordano traspaiono proprio fiducia e moderazione. Cinquantenne beneventano, in Antimafia dal 2014, è il sostituto procuratore che indaga sul sistema malavitoso messo in piedi da Michele Zagaria, boss del clan dei Casalesi. Recentemente il lavoro del pm ha fatto infuriare il boss di Casapesenna. Capastorta, lo scorso marzo, in video-collegamento dal carcere di L’Aquila (ora è a Tolmezzo), ha minacciato il magistrato durante un’udienza a Napoli Nord. Ma il veleno di un camorrista sanguinario non ferma la Dda. Le inchieste vanno avanti. Si continua ad indagare: le informazioni raccolte vengono valutate, analizzate nel dettaglio. E se la Procura distrettuale riscontra esigenze cautelari, chiede al tribunale arresti e sequestri.
A volte, però, le decisioni prese dal giudice per le indagini preliminari vengono sconfessate dal Riesame (o viceversa): si assiste ad un ping-pong che arriva fino in Cassazione.
E’ normale dialettica processuale. Il pubblico ministero propone misure cautelari e il gip in assoluta libertà decide. Se ci sono rigetti, caso per caso la Procura valuta di presentare o meno appelli. Il diritto è opinabile. Ognuno dà la sua lettura dei fatti attraverso la valutazione della prova, ma è fondamentale seguire le regole che il codice impone di applicare.
Prima di arrivare in Dda ha lavorato presso la Procura di Santa Maria Capua Vetere. Ha avuto modo di conoscere la criminalità campana in quasi tutte le sue sfaccettature, di seguire la sua evoluzione. Rispetto a quella degli anni Duemila, la criminalità organizzata ha cambiato pelle?
Negli ultimi anni stiamo riscontrando l’assenza di azioni di sangue. La camorra ha deciso di essere meno eclatante. Ma non vuol dire che sia cessata l’emergenza. Anzi, è diventa più insidiosa. Il clan dei Casalesi si ispira a Cosa nostra: si muove per intrufolarsi nella pubblica amministrazione e nel tessuto imprenditoriale. Sono dati, questi, che ci inducono ad una nuova riflessione, ad una qualificazione diversa dal fatto camorristico.
Cioè?
Chi partecipa al clan non è solo l’autore di estorsioni, attentati o omicidi. Fa parte del clan anche chi cambia assegni, ricicla denaro o si intesta beni riconducibili alla cosca.
Imprenditori e commercianti taglieggiati adesso denunciano con più facilità. E’ stato anche il loro coraggio a costringere i Casalesi a trasformarsi?
E’ vero, hanno risposto all’emergenza estorsiva. A mio avviso, però, il fenomeno che ha inciso è un altro: il clan per procurarsi denaro non ha più bisogno di estorcere la vittima. Prima per recuperare risorse era costretto alla violenza, adesso usa l’imprenditoria. E lo fa ricorrendo a figure specializzate.
Professionisti che stringono patti con la mafia.
Esiste l’imprenditoria vittima, che paga il pizzo. C’è quella collusa, che non è socia del clan, ma che per una serie di utilità che le vengono assicurate raggiunge un accordo con la criminalità organizzata. E poi ci sono gli associati, soggetti intranei all’organizzazione mafiosa, sui quali il clan ha deciso di investire.
C’è il rischio che chi fa affari con la camorra si nasconda dietro il vessillo dell’antimafia.
La giustizia deve comprendere se una figura imprenditoriale sia collusa o vittima. La linea è sottile. Bisogna essere rigorosi nella valutazione dei fatti.
La cronaca dell’ultimo ventennio ci ha spinto ad accostare la parola ‘clan’ a cemento, pizzo, rifiuti, omicidi. E’ una lista di binomi foltissima, ma sembra destinata ad allungarsi. E all’elenco, ora, dobbiamo aggiungere pure le fatture fase.
E’ un reato strumentale. Commetterlo, produrre e strutturare fatture false, ai clan serve per avere denaro contante. Quel cash ultimamente viene usato dalle cosche o per finanziare gli stessi associati o per alimentare la forza di infiltrazione attraverso la corruzione.
Perché se prima si sparava…
Adesso la mafia compra. E dalle indagini è emersa una forte permeabilità dell’apparato pubblico proprio alla corruzione.
Nel 2014 Antonio Iovine inizia a collaborare con la giustizia. Il boss di San Cipriano d’Aversa, con le sue dichiarazioni, traccia in modo del tutto nuovo il rapporto tra mafia e politica. ‘O Ninno dice che non è più la criminalità organizzata ad avvicinare gli amministratori, ma gli amministratori che cercano il clan.
Non è una regola consolidata. E’ successo in passato e potrebbe accadere di nuovo. Ma non è una categoria comportamentale.
Dopo Iovine altri esponenti di primo livello del clan hanno rotto il vincolo di omertà e iniziato a parlare con i magistrati. Nella lotta alla mafia qual è il valore di queste collaborazioni?
Sicuramente importante. Ma abbiamo il dovere di valutare quello che dicono. Farlo con scrupolo. La casistica di pentimenti è aumentata. Le Procure dispongono di una mole ingente di informazioni che consentono di verificare con estrema rapidità il grado di attendibilità dei collaboratori di giustizia.
Per anni la provincia casertana è stata letteralmente militarizzata dalla camorra. Arresti e confische hanno evidentemente indebolito la presenza del clan sul territorio. Il rischio che la camorra possa riorganizzarsi fisicamente c’è?
Molti affiliati, condannati per 416 bis, ritorneranno in libertà. Si tratta di personaggi di grossa caratura camorristica. C’è il pericolo che possano attrarre nuove leve.
I più pessimisti sostengono che la guerra alla mafia non finirà mai: la considerano una piovra che non conosce sconfitta. E’ così?
Assolutamente no. Si può e si deve sconfiggere. E la strada che abbiamo intrapreso è quella giusta. Non ci fermeremo.