Il coraggio di cambiare

Correvano gli anni Novanta del secolo scorso allorquando il movimento referendario, guidato da Mariotto Segni, vedeva finalmente realizzarsi l’affermazione di un nuovo modello istituzionale basato sulla legge elettorale maggioritaria. Per anni le continue crisi di governo avevano ridotto l’operato degli esecutivi a parentesi di pochi mesi, creando instabilità e crisi economica. Sulla spinta della necessità di porre fine a questo stato di cose, si creò un partito trasversale che confluì, con gli esponenti di maggiore prestigio, nel comitato per i referendum col proposito di cambiare le regole del gioco. La voglia di poter scegliere direttamente chi doveva essere chiamato a governare, si fece largo in vasti strati della popolazione anche in quel segmento della sinistra che aveva osteggiato, fino a quel momento, il presidenzialismo come una tesi politica cara alla destra se non come una perniciosa richiesta dell’uomo forte a capo della pubblica amministrazione. Una preoccupazione ricorrente, quella del premier eletto dal popolo, che rivitalizzava la paura che la nazione potesse finire nelle spire di una deriva autoritaria. Un argomento che spesso torna a galla ancora oggi come il mantra preferito dalla sinistra italiana per trasformare l’avversario in nemico e la contrapposizione politica in odio. Tuttavia sull’onda di quella diffusa opinione, intorno a Segni si riunirono uomini di ogni provenienza e militanza politica accomunati dal disegno riformatore di portare l’Italia verso una democrazia compiuta e stabile con governi durevoli. Fu in quel clima che sparirono i pregiudizi e le ipoteche politiche. Il sistema maggioritario con l’elezione diretta dei sindaci, dei presidenti di Provincia e di Regione, trionfò nell’urna. Lo stesso valse per le politiche che si svolsero con una legge (il Matterellum) per due terzi maggioritaria con listini bloccati (per un terzo dei seggi da assegnare) ed un premio di maggioranza riconosciuto al partito oppure alla coalizione vincente. Fu tanta l’influenza dell’opinione favorevole che entrò in uso anche una consuetudine, non prevista dalla legge: quella che il Capo dello Stato dovesse incaricare come presidente del Consiglio il leader del cartello che si era aggiudicato le elezioni. Un vasto movimento culturale ed ideologico spinse i partiti ad aggregarsi per assicurarsi, una volta vinte le elezioni, i seggi del premio di maggioranza e con questo si avviò un virtuoso processo di sintesi nella pletorica offerta partitica, sia a destra sia a sinistra. Un ulteriore benefico riflesso fu quello che il popolo poteva direttamente indicare il deputato, all’interno dei collegi uninominali, ed il programma che definiva il complesso delle posizioni dei pochi schieramenti della contesa. Tale sistema, per vent’anni, ha funzionato garantendo l’alternanza di governo e la durata degli esecutivi. Svanita questa idealità, eroso questo patrimonio, la politica politicante si è incuneata di nuovo verso il proporzionale tenendo in piedi in piedi la sola riforma maggioritaria per gli enti locali, vale a dire l’elezione di sindaci e presidenti di province e regioni. Un fritto misto che nessuna logica può giustificare e che lascia agli elettori maggiori facoltà in talune elezioni (amministrative) e meno in altre (politiche). In questo quadro di disomogeneità è ritornata in sella la politica dei numeri frammentati e del mercato delle poltrone nel dopo voto con la perdita, per l’elettore, del vincolo e delle motivazioni addotte dai partiti in campagna elettorale. Questi ultimi hanno le mani libere di utilizzare il voto come loro conviene in nome della governabilità e dello stato di necessità, fregandosene altamente del tipo di mandato ricevuto nel segreto dell’urna. E’ questa la storia dei nostri giorni e di ben tre governi in una legislatura dei quali due sono stati varati con a capo lo stesso presidente del Consiglio appoggiato da maggioranze (la prima gialloverde, la seconda giallorossa) di aree politiche contrapposte (!). Nei giorni scorsi il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, alter ego di Matteo Salvini, ha dichiarato che Mario Draghi deve essere accompagnato ed insediarsi al Quirinale. Ma non basta. Per il ministro dello Sviluppo economico l’ex “numero uno” della Bce dovrebbe guidare, dal Colle, anche il governo fino alle prossime elezioni. Insomma: si tratterebbe di mettere a Palazzo Chigi una sorta di “re travicello”, persona di fiducia di Draghi e mero esecutore dei suoi ordini. Un’aberrazione politica e costituzionale, uno sbrigativo ricorso ad un doppio presidenzialismo. Questo dà la dimensione di quale statura abbiano i nostri attuali leader, che attingono alla furbizia ed alla fantasia. Basterebbe invece tornare ad un maggioritario senza sotterfugi e realizzare lo scopo di avere gente competente in entrambi i poteri. Ma ci vorrebbe gente di levatura politica e col nerbo caratteriale ed il coraggio di voler cambiare.

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