Su quali forze, oggi, potrebbe poggiare un moderno meridionalismo? Chi è in grado di tracciare, allo stato, le presunte aspirazioni rinnovatrici del Mezzogiorno?
Prima di provare a rispondere ai due quesiti va denunciato innanzitutto chi ha neutralizzato la questione meridionale. Sicuramente i partiti hanno voltato le spalle al fiorire delle nuove generazioni sudiste, hanno volutamente rinunciato a quella lotta sociale che queste terre chiedevano a gran voce, per uscire dall’oppressione di uno Stato squilibrato e disonesto nei rapporti socio-economici tra Nord e Sud.
I partiti politici tradizionali hanno prodotto immobilismo giuridico-istituzionale, a cui si è legata la classe dirigente meridionale, ovvero un ceto politico autoreferenziale, per arrivare a concretizzare il cosiddetto trasformismo, esattamente figlio di quell’immobilismo. A questo punto, per dirla con Guido Dorso, si è prodotto “il fallimento di tutti i conati meridionalisti.”
Ma oggi? La risposta più efficace ed immediata non può che reggere sulle gambe dei figli migliori del Mezzogiorno, solo una nuova generazione di giovani, non ancora corrotti dalla storia, può avere lo slancio politico-programmatico per una risalita intelligente del Sud. Solo chi è in grado di produrre uno schema nuovo può permetterci l’uscita dalla sudditanza che propone un modello economico competitivo, fondato sul dogma del produttivismo e la compressione dei diritti del lavoro. Bisogna sconfiggere lo sfruttamento razionale legato alle nuove tecniche di produzione e di distribuzione.
Spezzare ma ugualmente proporre, discontinuità ma anche saper tracciare, di nuovo, l’interesse generale, farsi carico della capacità di azioni collettive mirate a soluzioni pratiche e realizzabili. Nessun astrattismo, quindi, ma discesa sui territori per ascoltare, sentirsi dire, praticare militanza e proporre lotte e vertenze. Il basso deve diventare alto e viceversa.
Ma con quali rapporti di forza, vista la frammentazione e l’individualismo imperanti? Il terreno, questa volta, non va spianato da intellettuali né da presunti nuovi movimenti culturali, ma dalla capacità di saper intessere relazioni direttamente nei luoghi delle contraddizioni sociali, ancora una volta dal basso; potrà avere partita vinta chi vorrà sporcarsi le mani nel fango delle nuove povertà, al fianco di chi non sente più tutele e protezione sociale, vicino a chi è stato espulso da un pensiero prevalente che, per sua natura, deve selezionare, escludere, espellere fuori dal sistema.
“Se una persona entra in contatto con i suoi vicini, e questi a propria volta con altri vicini, si determina un’accumulazione di capitale sociale.” Un concetto semplice quanto rivoluzionario quello di Lydia Hanifan, il capitale sociale si potrebbe configurare, pertanto, come strumento di lotta di classe. I comportamenti individuali andrebbero ricompresi in una azione collettiva inquadrata in un determinato gruppo sociale. Uno dei pochi modi per superare fini comuni altrimenti irraggiungibili.
Il Sud potrebbe ripartire da qui. Siamo in ritardo ma il tempo consente sempre di rinascere e, in questo caso, è necessario tentarci.
Di Raffaele Carotenuto
*Scrittore e meridionalista