Il morire democristiani

Vincenzo D'Anna, già parlamentare

Nei tempi in cui la Democrazia cristiana (per anni forza di governo in Italia) iniziava il suo lento declino, schiere di maître a penser, firme del giornalismo ed artisti che, a vario titolo, costituivano l’ossatura dell’egemonia culturale della sinistra italiana, coniarono un’ espressione piuttosto spregiativa e di distinguo dalla balena bianca: “Non voglio morire democristiano”. La Storia patria, con i tempi necessari, ha saggiamente passato al setaccio le ideologie, i luoghi comuni ed i convincimenti di quei personaggi, decretandone una miserrima fine. E lo ha fatto a tal punto che la parabola della Dc appare oggi, a torto o a ragione, oro rilucente al cospetto dello sfacelo politico e della dilagante ignoranza dei protagonisti della scena politica nostrana. Innanzi alle benemerenze di coloro che nel dopoguerra avevano ricostruito l’Italia, collocandola nella sfera delle democrazie occidentali, forgiando la classe media, facendo prosperare industria, commercio, turismo ed artigianato, garantendo un clima di pace sociale nella libertà e nelle garanzie costituzionali, gli attuali leader di partito sembrano nani al cospetto di giganti. E tuttavia non mancarono, anche allora, errori in campo sociale, scelte sbagliate ed ambigue in campo economico ove, per convenienze elettorali, si mischiavano il liberalismo di facciata e il socialismo di sostanza, con l’avvio di un sistema statocentrico ed onnipresente che segnò l’incipit del pauroso debito pubblico. Non mancavano, tuttavia, mai la solidarietà, la rete di protezione sociale e la sussidiarietà col decentramento dei poteri centrali, il protagonismo nel processo di unità europea, le tutele sul lavoro e le garanzie sindacali, i servizi essenziali come scuola, sanità, trasporti: cardini politici intorno ai quali il Belpaese ha saputo crescere fino ad essere integrato tra le prime potenze mondiali. Insomma, ancora oggi campiamo di rendita politica, soprattutto dopo che l’eclissi del comunismo e delle società massificate ha prodotto un convincimento sempre più diffuso. Vale a dire che l’idea di uno Stato benevolente possa programmare, definire ed indirizzare gli esiti della vita dei propri cittadini. Proprio questa idea che fa perno su un apparato onnipotente ed onnisciente, che dispone di tutti i mezzi per poter realizzare tutti i fini, era perseguita da quei sussiegosi ceti intellettuali: quelli che giocavano a fare i socialcomunisti con le sciarpe rosse al collo. Canonicamente vestiti in cachemire, costoro si dilettavano, tronfi, ad inveire contro il “regime democristiano”. Ebbene: avevano torto marcio! Sì, perché prendendo la Storia come giudice imparziale, le ragioni ed i torti di quei “criticoni” oggi appaiono capovolti. Sì, oggi tornano a galla l’interclassismo e l’equità intesi come principi di una libera economia in un capitalismo ben temperato che non trascuri nessuno. Oggi l’uguaglianza forzata non è più una virtù ed ha smesso di essere equiparata alla giustizia. Con decenni di ritardo si è finalmente scoperto cosa sia l’equità, ossia: sostenere i più deboli senza oltraggiare i meritevoli e saccheggiare, attraverso le tasse, la ricchezza di chi la produce con il proprio lavoro ed i propri talenti, per poi redistribuirla. Allora è diventato attuale quello che F.A. Von Hayek, premio Nobel per l’economia, liberal liberista, ebbe a scrivere: “c’è un enorme differenza tra trattare le persone equamente e cercare di renderle eguali. Mentre la prima è la condizione necessaria di una società libera, la seconda è una nuova forma di schiavitù”. Fu in quegli anni, proprio grazie alla Libertas, che emersero i principi del popolarismo liberale: quello di Rosmini, Toniolo, Sturzo, Gonella e De Gasperi. Una dottrina che fu sempre in perfetta sintonia con la società libera, ed equa in economia, veramente solidale con l’uomo libero al centro della società. Ma i tentativi di mischiare le carte sul tavolo delle risultanze storiche e politiche sono ancora in corso, un espediente per tenere lontani dalla conoscenza del grande pubblico quelle verità e continuare ad ammannire all’opinione pubblica il socialismo e lo statalismo, come se questi fossero una ideale panacea. Sul “Sole 24 Ore” in questi giorni un gruppo di economisti ha redatto e sottoscritto un manifesto di valori socio economici per il terzo millennio dal roboante titolo “La nuova economia che vogliamo e la salvezza della civiltà”. Vi si scorgono alcune buone idee di cambiamento a proposito degli indicatori economici, del PIL, del rapporto Stato-cittadino e del lavoro. Tuttavia in quel Manifesto di valori, senza alcuna pudicizia e vergogna per degli economisti, tutta la rivoluzione proposta è passata attraverso ipotesi di correzione degli errori del mercato di concorrenza! Un paradosso irricevibile, come se in Italia non fosse lo Stato ad essere il dominus e non il mercato, detenere migliaia di aziende ed ogni tipo di monopoli dissipatori di risorse oltre che iniqui. Non fosse quel Leviatano a ripianare debiti e perdite delle proprie aziende intervenendo ogni giorno in campo economico con leggi atte a turbare il mercato. Scopriamo invece che il dominus economico è il libero mercato di concorrenza, basato sulla reciprocità delle convenienze e della domanda ed offerta. Allora sì: se questo dovrà continuare ad essere, meglio morire democristiani che miserabili e mendaci!!
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