L’ultima ondata neoliberista che ha letteralmente spedito il Mezzogiorno verso la dimenticanza (e quindi nell’irrilevanza sociale, politica ed economica) è stato il Governo Monti. Il dato statistico (non interpretativo) è dato dall’abbassamento del Pil negli anni 2011-2013, esattamente in coincidenza dell’agire del Governo da questi presieduto, in qualità di “penultimo” europeista che ha espresso l’Italia.
Dal novembre 2011 all’aprile 2013 la ricchezza italiana è verticalmente scesa, complice una ricetta rigorista che si proponeva di “ammazzare” la domanda interna, attraverso la caduta dei consumi. Aumento della pressione fiscale, il pareggio di bilancio, i tagli alla spesa pubblica e meno Stato nell’economia. Con questi ingredienti l’Italia è andata a rotoli e il Sud è sparito.
Ma per vedere bene come effettivamente siano andate le cose, bisogna seguire l’andamento dei tagli alla spesa pubblica in conto capitale ed osservare quali macrozone dello stivale hanno colpito di più. Nessuna sorpresa, il “bocconiano” in questione ha addirittura aumentato la spesa pubblica al Nord e pesantemente diminuito la stessa al Sud, proprio negli anni in cui reggeva l’esecutivo nazionale. Per finire sul punto, nell’epoca considerata, non tanto lontana, i poveri sono aumentati fino a due milioni e le famiglie in miseria di poco meno.
Il Mezzogiorno non poteva rimetterci di più, e non è stato più in grado di “uscire” dalla crisi e orientarsi verso altre direzioni. Affondando così in una miseria produttiva, oltre che sociale, non già all’altezza di prospettare una crescita economica. Nell’arco politico del nuovo secolo, né i confusi nazionalismi pretesi dalla destra, né tantomeno il rigorismo sotto mentite spoglie avanzato dalla sinistra, hanno giovato al Mezzogiorno. Anzi, la frammentazione sinistroide ha prodotto un presunto modernismo rottamatore che dimostra dei tratti inquietanti, e comunque molto lontani dall’orizzonte del Sud.
Purtroppo, con il venir meno dell’intervento straordinario, epurato della narrazione tossica cucitagli addosso, rimane ben poco per analizzare le distanze tra Nord e Sud. L’unità che nasce con il piede storto, due guerre ed un ventennio a-democratico, con politiche economiche che riducono lo Stato a spettatore passivo, per lasciar fare al mercato, hanno immiserito una macroregione che non è stata in grado di approfittare neppure delle sue bellezze naturali e di una invidiabile posizione geopolitica.
Ostinarsi a non “intravedere” direzioni in cui lo Stato diventi protagonista attivo dello sviluppo, non assoggettandosi a spinte privatistiche, lasciando fare ad una “buona politica” e non a burocrati dell’economia e della finanza, non potrà altro che sottomettere a questo europeismo monetario e finanziario i 20 milioni che qui risiedono.
Poi è venuto l’ultimo europeista, studente della stessa scuola di pensiero, e si ritrova a gestire i fondi dell’UE (Pnrr) per ri-allineare servizi e infrastrutture tra le due aree del paese. Già custode della crisi del debito sovrano dell’area Euro e convinto assertore di quella austerità che ha reciso ogni ramo tra il Sud e il restante paese.
Rottamatore delle aziende di Stato e iniziatore delle privatizzazioni in Italia (Iri, Eni, Enel, Sip), colui che grazie alle sue scelte di politica economica suggerite ha prodotto una riduzione degli investimenti industriali e fatto decuplicare il debito pubblico. Il quotidiano digitale affaritaliani.it individua nell’attuale presidente del Consiglio la figura correa sulla vendita di derivati (tossici) alla Grecia per farla entrare nell’euro.
Perché questa politica dovrebbe far svegliare da un lungo letargo il Sud se le ricette che si propongono sono le stesse che lo hanno affondato? Le risposte sono diverse quando si crea il terreno politico-sociale che ne determina il tessuto di svolta per un reale cambiamento di sviluppo economico.
di Raffaele Carotenuto, scrittore e meridionalista