Il vaticinio di Sturzo

Luigi Sturzo, chi era costui? avrebbe (ri)scritto Manzoni ai giorni nostri. Fu quel punto interrogativo, proferito da don Abbondio nel romanzo dei “Promessi Sposi”, a proposito di Carneade a destare, in una più vasta platea di studiosi, la conoscenza del filosofo di Cirene che, ai suoi tempi, fu a capo di una scuola di filosofi cinici, tenuto in grande considerazione nella città Stato di Atene. Tuttavia la notorietà del fondatore della “Nuova Accademia”, fu sempre offuscata dalla figura di Diogene di Sinope, vissuto qualche decennio prima di lui. Quest’ultimo è passato alla storia anche per la bizzarria di un paio di episodi che lo videro protagonista. In uno di questi si tramanda che, mentre era sdraiato sugli scalini di un tempio, richiesto da Alessandro Magno di esprimere un desiderio che sarebbe stato prontamente esaudito, gli rispose: “scansati col cavallo che mi togli il sole”. Tale aneddoto conferma come la Storia sia un elemento indispensabile per rinnovare la grandezza del pensiero di uomini che sono stati eccezionali. Senza memoria, infatti, non solo sparisce il loro ricordo ma anche le idee delle quali costoro furono ideatori e latori. Un oblìo che ha inghiottito personalità dalle menti eccelse un po’ in tutti gli ambiti intellettuali. Se la politica, intesa come strumento di tecnica gestionale delle comunità, deve essere annoverata tra le scienze sociali, anche per i politici assume valore il loro rapporto con la Storia ai fini, appunto, della conservazione della memoria. “La politica è di per sé un bene; il far politica, in genere, un atto d’amore per la collettività, un dovere per il cittadino. Il più alto dei doveri dopo il servizio sacerdotale reso a Dio”: se questo concetto, espresso dal sacerdote don Luigi Sturzo, grande intellettuale, politico, economista e sociologo, non fosse caduto nel dimenticatoio, giammai richiamato in pubblicazioni scolastiche ed ordinarie, oggi vivremmo di certo in un mondo migliore. Di sicuro non in quello del bengodi, l’isola felice dell’umanità, ma certamente in un contesto umano meglio governato ed una società più equa e più giusta in nome di un’idealità politica più degna d’essere messa in pratica. Viviamo invece in un Paese senza memoria storica, dove si asseconda una mentalità levantina, quanto basta per anteporre l’opportunismo e la rapacità di cogliere il proprio interesse, alla lectio di una storia maestra di vita. Oggi la modernità ed il progresso si misurano con la velocità della comunicazione e questa con la pluralità dei mezzi che la consentono, la capillare diffusione ed il possesso, a basso costo, di quegli stessi mezzi. Un fenomeno che fu già visto all’inizio del secolo scorso, con l’invenzione del telegrafo, e poi, via via, con quella del telefono, della radio e infine della televisione: un “deja vu” che identifica, nella quantità e nella velocità di diffusione delle notizie l’eccezionale espressione del progresso. Anche agli inizi del XX secolo, questo “fenomenologia” fu inquadrata come rivoluzionaria e di per se stessa evolutiva per l’umanità. Diffusa da una categoria intellettuale attraverso una movimento culturale che prese il mome di Futurismo che ebbe in Filippo Tommaso Marinetti il suo principale epigono. Nel ‘900, le arti, la letteratura, la filosofia, furono interessate a sfruttare ed a rappresentare, al tempo stesso, le nuove caratteristiche offerte dal progresso tecnologico e merceologico. Eppure nei decenni a seguire quel rinnovamento – a cui pure si adeguò parte della società – non seppe tradursi in maggiori spazi di autonomia e di indipendenza ideale, ovvero in maggiori spazi di civismo e di democrazia. In sintesi: l’illusione che il progresso potesse pervadere tutta la società e migliorarla, fu malamente disillusa. Senza eccezione alcuna, compresa la politica, dove non fu apportato alcun sostanziale tipo di miglioramento. A dispetto dei progressi tecnologici, infatti, il secolo scorso si trasformò in seguito quello delle due guerre mondiali e delle dittature. Eppure, corsi e ricorsi storici, sono cose riviste anche ai giorni nostri. Cosa ne è stato, infatti, a distanza di un secolo, delle teorie grilline, sulla democrazia telematica che doveva garantire una nuova etica pubblica ed un regime di consultazione assembleare permanente che soppiantasse la democrazia parlamentare? Che fine ha fatto, all’atto pratico, la tesi che per la buona politica non occorresse cultura ed esperienza ma solo il buon senso e la dichiarata onestà? Ecco allora che la lezione di Sturzo si erge come monito, per realizzare veramente il governo dei migliori: “Gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciano appello perché uniti possano possano propugnare, nella loro interezza, gli ideali di giustizia e libertà”. Senza l’impegno diretto e consapevole di questa tipologia di cittadini, non c’è migliore avvenire.

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