Incontro Usa-Cina: la forza e l’astuzia

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Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

Finalmente si sono incontrati i capitani delle due squadre che aspirano al titolo di “guida dell’ordine mondiale”, senza mediazioni né intermediari. Putin è ormai soltanto un agente di commercio: un piazzista che risponde al titolare della ditta intestata alla Repubblica Popolare Cinese. L’amministratore delegato del Dragone, Xi Jinping, con la sua aria flemmatica, annoiata e distratta, ha affrontato il tracotante inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, avendo ben chiari sia gli obiettivi da raggiungere sia i mezzi per conseguirli.

Si ha l’impressione che mentre il presidente statunitense si dedichi alla tattica, quello cinese pratichi la strategia: il primo punta a ottenere vantaggi immediati per la nazione ancora più potente del mondo, il secondo mira a sostituirla al vertice geopolitico e commerciale. È facile ritenere che Pechino abbia ragione, poiché la sua economia, pur inserita nel libero mercato, resta sotto il ferreo controllo politico e legislativo del Partito Comunista Cinese.

Il capitalismo anomalo vigente nel Paese della Grande Muraglia gode di privilegi e vantaggi impensabili in Occidente: tiene a bada l’opinione pubblica, limita le tensioni sociali e le rivendicazioni salariali, agisce liberamente in materia energetica e ambientale senza il contrasto di opposizioni politiche, parlamentari o sindacali, e senza una stampa libera che ne critichi l’operato. Il patto tra potere dispotico e società, fondato sul motto “arricchitevi come potete, ma non rivendicate diritti politici e sociali”, continua a reggere.

Ne deriva un sistema che mantiene bassi i salari, alta la produzione e garantisce rapidità legislativa, assenza di contrasti e vincoli minimi, anche nel campo della difesa ambientale. L’economia cinese è diretta dall’alto, dalla nomenclatura del Partito Comunista, mentre quella minore — che attinge risorse e finanziamenti dalla prima — viene incanalata verso produzioni strategiche, senza disperdersi nel caos e nell’individualismo tipico della libera iniziativa occidentale.

I vincoli e i limiti che in Occidente accompagnano la libertà e i diritti civili sono praticamente sconosciuti in Cina. Di conseguenza, anche la libertà d’impresa, l’andamento dei prezzi e dei salari, condizionati dal rispetto dei diritti di lavoratori e consumatori, rendono i prodotti occidentali più costosi e quindi meno competitivi sul mercato globale. Quanto più etica è la produzione di beni e servizi, cioè rispettosa dei diritti di tutti i protagonisti, tanto più risulta svantaggiata rispetto a chi quei diritti può ignorarli. Più numerose e restrittive sono le leggi da osservare, maggiori saranno gli svantaggi rispetto a chi produce senza doverle rispettare.

Ma questo non basta a spiegare la differenza sostanziale tra i due grandi del mondo che si sono incontrati in Corea del Sud. Occorre considerare anche altri due fattori: il debito pubblico e il reperimento delle materie prime, in particolare delle cosiddette terre rare, oggi indispensabili per la produzione di manufatti strategici. Si tratta di minerali essenziali per la tecnologia, i nuovi armamenti, i sistemi informatici e spaziali, le attrezzature industriali e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale.

La Cina ha saputo sfruttare gli errori commessi da Stati Uniti e Vecchia Europa, che — sotto la pressione dell’opinione pubblica pacifista — si sono ritirati dai territori ricchi di terre rare. Uno su tutti: l’Afghanistan, dove si trovano i più vasti giacimenti, oggi sfruttati dai cinesi. Incuranti del sottosviluppo e delle arcaiche abitudini locali, i nuovi “protettori” di Kabul non si intromettono: scavano e portano via i minerali. Il governo di un paese occidentale non potrebbe farlo senza rendere conto alla propria opinione pubblica, senza rischiare una debacle elettorale.

A ciò si aggiunge l’enorme debito pubblico americano, in buona parte nelle mani delle banche cinesi, che pesa anch’esso, da contraltare ai dazi statunitensi, sugli scambi tra i due Paesi. Non siamo lontani dal vero se affermiamo che, senza un cambio di rotta nella politica interna ed estera — oltre che in quella della difesa e dell’industria da parte di Usa e della Ue — a Seul si sia assistito al primo episodio di un passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo tutore del mondo.

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