La colonna infame

Vincenzo D'Anna

Pagando un prezzo altissimo in termini di decessi, ci avviciniamo all’esatta comprensione dell’epidemia che ha colpito la nostra Nazione e che tuttora flagella, a focolaio, una parte della Lombardia. Dalle colonne di questo giornale mi permisi di affacciare, con colpevole leggerezza, un’ipotesi che trovò contrari quasi tutti quelli che furono interpellati in proposito. Anzi, uno stralcio di quell’articolo fu utilizzato per avviare una vera e propria campagna di delegittimazione nei confronti del sottoscritto, fatto passare per propagatore di false notizie (per le quali ho dovuto querelare più di una persona). Eppure non ho mai smesso di confidare nella luce fulgida e candida della verità che, in taluni ambiti, chissà perché, tarda sempre ad arrivare.

Non sono molti, in questa fase, coloro i quali, reclusi forzosamente nelle proprie case, ricordano che il “caso scientifico” fu preceduto da un’aspra e dura polemica tra governo ed opposizione sulle modalità di affrontare l’epidemia che dalla Cina avrebbe potuto contagiare anche l’Italia. A seconda delle vie d’ingresso del morbo, si scatenavano confronti al fulmicotone ora sugli eventuali “untori” del virus (individuati nei migranti africani), ora sulla scarsa efficienza dei controlli e sulle misure più o meno drastiche da predisporre. Un fastidioso gioco di sponda tra chi doveva disporre e chi strumentalmente chiedeva ancora più di quello realizzato.

Innanzi alla severità della virosi e dell’inutilità degli accorgimenti di prevenzione, predisposti per arginare il diffondersi del contagio, passerelle politiche e contestazioni sono, di punto in bianco, sparite. E come avrebbero potuto perpetuarsi? Parliamo di “miserie umane” destinate inevitabilmente a soccombere innanzi alla realtà di un evento pandemico che ormai si allarga in tutto il mondo mettendo in ginocchio l’economia, le abitudini e finanche le umane certezze di un futuro nel quale il benessere e l’idea del progresso sociale avrebbero continuato a riguardare diffusamente tutti i cittadini nelle loro opulente società.

Qualcuno ha addirittura recitato il “de profundis” alla globalizzazione ed ai costi, in termini di sfruttamento ed inquinamento ambientale, che questa avrebbe comportato. Altri ancora hanno addirittura ipotizzato la morte dell’idea di “Europa unita”, incapace, soprattutto in un frangente così cruciale e delicato come quello che stiamo vivendo, di dettare regole e strategie di protezioni univoche e valide per tutte le Nazioni. L’unico soccorso giunto è quello monetario della Banca Centrale Europea e della sospensione del Patto di Stabilità con i suoi limiti di spesa e di debito statale. Personalmente non credo che il mondo andrà nella direzione di ridimensionare il futuro, anzi sono convinto che troveremo ulteriori stimoli per capire che, innanzi a certi drammi epocali, ci pensano l’unità e la solidarietà tra i popoli a fare da scudo. Sembra rifiorire, semmai, quell’umanesimo che antepone la declinazione del verbo essere a quello avere.

E veniamo adesso al “protagonista” della vicenda. A questo coronavirus che pare sia mutato e che sia stato presente già da tempo sul nostro territorio, ben prima dell’evento cinese di Wuhan (a sua volta annunciato con colpevole ritardo alla comunità internazionale dalle autorità di Pechino). La domanda che oggi ricorre più di frequente dividendo la comunità scientifica, è la seguente: quale nesso di causalità intercorre tra l’inquinamento di quelle zone (Lombardia) in cui la mortalità è più alta, e l’azione del virus? Ebbene, nei giorni scorsi uno studio dei ricercatori della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) – che hanno analizzato i dati in collaborazione con le Università di Bari e Bologna – non ha escluso la correlazione tra il fenomeno della tipologia d’inquinamento ambientale di alcune aree della Pianura Padana, con la maggiore diffusione e letalità del Covid-19. Lo stesso dicasi per la tipologia del virus: ben tre, quelli isolati in Italia, sono apparsi parenti diciamo così “alla lontana” del loro antenato cinese, avendo un codice genetico e proteine diverse e forse una letalità maggiore.

Torniamo quindi alle congetture fatte a suo tempo dal sottoscritto sulla natura sostanzialmente autoctona del Covid (confermata anche dall’Istituto superiore di Sanità che ha riscontrato la presenza, nella zona di Codogno, di malati di seconda e terza generazione) e, soprattutto, la relazione con gli inquinanti ambientali di quelle terre del Nord. Insomma una “localizzazione” che ovviamente non può e né deve essere considerata come una sorta di “lettera scarlatta”, un segno distintivo per quelle popolazioni martoriate. All’opposto, si tratta solo di fare i conti con un dato epidemiologico e non di un’occasione per il popolo del Sud (tante volte schernito, in passato, per i propri guai), per fare razzismo alla rovescia. Durante la peste di Milano molti innocenti accusati di essere untori del morbo, furono arrestati e torturati. Per uno di essi i magistrati decisero di abbatterne la casa e di costruire, in quel luogo, a perenne ricordo della colpa, una “colonna infame”. In Italia credo che quei monumenti non abbiamo più cittadinanza.

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