La fine di un’era

Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna
Foto Roberto Monaldo / LaPresse Nella foto Vincenzo D'Anna

Lo confesso, ho sempre pensato che l’ombrello della Nato e la collocazione atlantica, ovvero filo americana, avrebbe immunizzato l’Italia, ed il resto dei paesi “alleati”, da ogni preoccupazione sul piano militare. Che il mondo uscito dall’intesa di Yalta, tra le nazioni che avevano vinto l’ultima guerra, potesse proteggere l’Europa dalle mire espansive e dalle ingerenze dell’altra super potenza mondiale, l’Unione Sovietica, con il suo regime tirannico di stampo marxista leninista.

Quel clima di tranquillità ruotava intorno alla politica estera statunitense, ovvero al ruolo che questa svolgeva a livello internazionale, ergendosi a baluardo contro ogni insidia proveniente dall’est Europa e dai paesi satelliti dell’Urss riuniti nel “patto di Varsavia”. Una dottrina, quella americana, iniziata con il loro intervento al fianco di inglesi e francesi durante la Grande Guerra e poi, successivamente, di nuovo al fianco delle forze dell’Intesa, nel secondo conflitto mondiale. Nel tempo di mezzo tra le due guerre mondiali, l’America aveva preferito astenersi dall’interferire nelle vicende europee, attanagliata come era dalla grande crisi economica del 1929, determinata dal crollo della borsa valori di Wall Street. Per più di un lustro Washington fu impegnata ad uscire dal tracollo finanziario e dalla disoccupazione di massa dando vita al New Deal (“nuovo corso” o “nuovo patto”) promosso dal presidente Franklin Delano Roosevelt allo scopo di risollevare il Paese dalla depressione che l’aveva travolto.

Risolti i problemi interni, gli States ripresero con la politica di difendere i propri interessi e quelli dei paesi “amici”, in primis la Gran Bretagna, minacciata molto da vicino dal regime nazista. Da allora e fino a Barack Obama, gli Usa non hanno mai fatto mancare il proprio sostegno ai paesi dell’Europa liberata dalla minaccia di Hitler e che, successivamente, si erano organizzati come stati costituzionali, all’insegna della libertà ed in contrasto con l’espansionismo di Mosca ad oriente. Nel 2011 Obama si risolse a sostenere i ribelli libici per rovesciare Gheddafi e quelli siriani contro al-Assad, ritirò i soldati americani dall’Iraq, stanziati lì sin dalla seconda guerra del Golfo, per defenestrare Saddam Hussein e tenere a bada la minacciosa teocrazia del regime degli ayatollah iraniani. Insomma: veniva progressivamente meno il loro ruolo di “guardiani del mondo” grazie anche al convincimento che il crollo dei regimi comunisti e quello dell’Urss, avesse lasciato gli americani liberi da concorrenze geo politiche.

Completata l’operazione anti Isis, con l’eliminazione di Bin Laden, l’America ha scelto di piegarsi su se stessa, con la teoria del first America (“prima l’America”), una visione rivolta ai problemi interni, soprattutto quelli di contrasto alla crisi economica mondiale che mordeva anche gli Usa. Una sequenza di accadimenti che ha finito con il cancellare la vecchia partizione del mondo iniziata a Yalta, proseguita con la cortina di ferro e la lotta al comunismo ed infine terminata con l’abiura del ruolo internazionale degli States nel mondo. Il realismo politico non lascia spazio alle recriminazioni e tutto fa oblìo della vecchia solidarietà atlantica, anche in ragione della concorrenza sui mercati che l’Unione europea esercita nei confronti del vecchio protettore d’oltreoceano.

Comunque sia, la lezione afghana, il ritiro delle truppe da quei luoghi, è l’esatta espressione di questo nuovo scenario politico ed economico che oggi intercorre tra Europa e Stati Uniti. Non so quanti siano i politici in Italia che abbiano consapevolezza che tutta l’Europa deve necessariamente imparare a camminare con i propri piedi e fare affidamento sui propri mezzi. Il vecchio mondo è alle spalle ed è bene che chi governa a Roma e a Bruxelles debba sapersi attrezzare innanzi alla nuova realtà. La politica estera, dal dopoguerra, connota, caratterizza ed influenza la posizione del Belpaese ed ora anche dell’intero vecchio continente. Sulla scorta di queste evidenze, che trovano conferma in Afganistan, bisognerà corroborare e velocizzare il processo di unificazione continentale, a cominciare dalla creazione di una forza militare congiunta. Varare altre riforme comunitarie che intensifichino l’unità politica degli stati membri dell’Ue che da anni languono per i veti incrociati dei singoli paesi aderenti. Revanscismo nazionalistico e sovranismo vanno archiviati senza altre perdite di tempo.

Se, come sembra, l’Europa non accetta di consegnarsi al dominio economico e politico del totalitarismo della Cina, c’è da attendersi la creazione di una forza di intervento militare europeo che impedisca di consegnare l’Afghanistan alla barbarie della “sharia” degli stati islamici. Ignorare questa necessità coprendola con il vento delle parole e l’utopia pacifista, lascia le democrazie europee spettatrici inermi ed inutili sullo scenario mondiale. Questo sarà il secolo di due grandi battaglie, quella che deve preservare il mondo dal degrado ambientale e quella di una soluzione dell’eterno drammatico divario tra paesi ricchi e paesi poveri che è alla base delle migrazioni di massa. Insomma che non ci si rassegni inoperosi alla fine di un’era.

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