La lezione di Voltaire

Se la scuola italiana, un giorno, abbandonerà la vocazione dell’accoglienza sociale e quella della parificazione dei saperi verso il basso, riprendendo il suo ruolo naturale di luogo dell’istruzione e della meritocrazia, potrà darsi che, prima o poi, i nostri ragazzi riprenderanno anche l’abitudine di leggere.

Vincenzo D'Anna, ex parlamentare

Se la scuola italiana, un giorno, abbandonerà la vocazione dell’accoglienza sociale e quella della parificazione dei saperi verso il basso, riprendendo il suo ruolo naturale di luogo dell’istruzione e della meritocrazia, potrà darsi che, prima o poi, i nostri ragazzi riprenderanno anche l’abitudine di leggere. Ebbene tra i testi che mi sentirei di consigliare in tal senso, potrebbe esserci il “Trattato sulla tolleranza” che François-Marie Arouet, in arte Voltaire, ebbe a scrivere nel 1763. Un’opera magistrale, incentrata sulla libertà degli individui e sulla tolleranza delle altrui opinioni intesa come migliore espressione di quella stessa libertà. Da quel trattato ne deriva la visione e la cultura intorno alle quali sono poi cresciute le società liberali, le cosiddette “Big society”, ovvero tutte le comunità civili che tali sono diventate per la gamma dei diritti individuali indisponibili alla coercizione da parte di qualsiasi potere costituito. La massima volteriana che può essere dedotta dal trattato, dovrebbe essere stampata sulla carta moneta, affinché tutti possano conoscerla ed adeguarsi: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”. Una massima di profondissima civiltà giuridica e politica che, per la verità, Voltaire non pronunciò né scrisse mai (fu la scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall, nel 1906, a mettere la citazione tra le virgolette). Frase che più volte, però, mi è venuta in mente, in questi giorni, di fronte agli attacchi concentrici sferrati nei confronti di Matteo Renzi da parte della magistratura inquirente e della conseguente rimessa in moto della “macchina del fango”.

Ho già scritto che le lamentele renziane verso l’ingerenza politica di taluni giudici e di come questi pretendano di conferire alla giurisdizione l’ulteriore potere di giudicare la correttezza dell’agire politico anche quando questo si manifesta nelle forme lecite, sono tardive e sospette. L’ex premier e segretario del Pd ha colpe gravi avendo ceduto, quando era capo del governo, alla demagogia della rivendicazione di costumanze morali e politiche superiori agli altri, a dimostrazione delle quali ha confezionato ed approvato leggi scellerate sollecitate dal potere togato e da coloro che ne portano i desiderata nelle aule parlamentari. Come definirebbe oggi, Renzi, la legge sul “traffico d’influenza” non è dato sapere. Lo stesso dicasi per quella norma capestro, mai tipizzata ed inserita nel codice penale, come il concorso esterno in associazione mafiosa, che eleva le dichiarazioni dei pentiti apoditticamente al rango di prove che poi spetta all’indagato smentire più che al pubblico ministero dimostrare che siano vere. Ma non basta questa colpa legislativa. Ve n’è un’altra di natura prettamente politica sempre addebitabile al giovane senatore: quella di non essersi battuto per riformare la natura costituzionale dei partiti politici. Ovvero trasformare i medesimi da semplici associazioni private in enti di diritto pubblico sottoposti al controllo di un authority terza che ne monitori la veridicità delle adesioni, la democrazia dei meccanismi congressuali utili a selezionare la classe dirigente, il finanziamento pubblico e l’uso del danaro concesso. Oggi Renzi sbatte i pugni e fa la voce grossa. Si dovrebbe comprendere, però, se l’ex inquilino di palazzo Chigi ha scoperto, sotto i colpi persecutori dei magistrati, l’insipienza di una politica e di un governo che ha tirato a campare ed a godersi l’ebbrezza del potere. Oggi finalmente il buon Matteo ragiona e si pente della superficialità con la quale, in passato, ha puntualmente ignorato – accecato e reso sordo dalla spavalderia e dalla superbia di chi diventa permeabile alle lusinghe del potere, illudendosi di essere immarcescibile – i richiami che pure, quando era ancora in auge, gli venivano rivolti in Parlamento, compresi quelli del sottoscritto. E tuttavia, a fronte di tutto ciò, Renzi va difeso, secondo la “massima” di Voltaire, perché quello che affligge il leader di Italia Viva affligge tutta la democrazia italiana, e quel che spadroneggia sull’ex “rottamatore” di Rignano spadroneggia su tutti i partiti politici del Paese.

La nostra Nazione non si salverà se non verrà risolto il problema della giustizia e quello dei rapporti con il potere politico: l’Italia non si salverà se non ci sarà la stagione del rilancio dei partiti, certo riformati e trasparenti, capaci, cioè, di prendere il posto dei padri-padrone che oggi li rappresentano e che li rendono impermeabili alla democrazia interna. Oggi dare solidarietà a Renzi significa di nuovo richiamare la lezione sulla tolleranza di Voltaire: ne sarà degno il giovane sussiegoso e tracotante di Rignano?

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