L’altra faccia dell’uguaglianza

Vincenzo D'Anna

Viviamo in un mondo caotico, poliedrico ed in continua metamorfosi, grazie anche all’apporto (ed all’umana dipendenza) del progresso merceologico e tecnologico. Nelle società “aperte” ovvero quelle in cui trovano spazio opinioni, idee e proposte, queste si coniugano con la garanzia che ciascuno sia portatore di diritti garantiti da un sistema liberale e costituzionale. Diritti che Isaiah Berlin, filosofo liberale, definì “negativi” ovvero non conculcabili da nessuna autorità costituita, non negoziabili ed indisponibili allo Stato. Più larga è la quantità e la qualità di questi diritti più ampio diventa il grado di libertà di cui ogni cittadino può godere. Tali società non sono viste di buon occhio dalla scuola di pensiero socialista e statalista, che le ritiene, all’opposto, frutto di un individualismo egoistico, disgregatore della pace sociale e fonte di diseguaglianza. Insomma: siamo al cospetto dell’eterna lotta tra individui e società, tra libertà individuali e potere dello Stato, quest’ultimo supposta e presunta “garanzia” per i deboli ed i poveri. Il filosofo Zygmunt Bauman definì le società “aperta” ed opulente dei regimi liberali come un ambiente liquido nella quale il consumismo determinava un prezzo per tutto e mai un valore. Un settore in cui i liberi diventavano  meri consumatori, messi a disagio dallo scarso potere d’acquisto, si sentivano emarginati da un sistema capitalistico che si tramutava – per interessi economici e commerciali – in mero contenitore per accogliere i mutevoli contesti sociali. Tuttavia, per quanto attrattiva sia tale teoria sotto il profilo morale, la critica della società capitalistica non appare giustificata dal momento che le cose non sono affatto aderenti, se non emotivamente, alla realtà. Quest’ultima, per quanto complessa e mutevole (e quindi imprevedibile), non è necessariamente una società fatta di disuguaglianze apodittiche ed  ingiusta. Se in un regime di piena libertà individuale, di libera impresa ed il libero mercato, taluni assurgono a posizioni di vertice, lo si deva alla loro capacità, meriti, genialità e sacrifici sul lavoro. Se alla base del successo e della ricchezza c’è il rispetto delle regole e delle norme che presidiano e controllano quelle fattispecie, valorizzate dei requisiti personali degli individui, ecco allora che la scala dei valori morali è pienamente rispettabile e sovrapponibile a quegli stessi modelli di solidarietà e di uguaglianza postulati dai socialisti. Sono, questi, temi valoriali che, seppur poco studiati e conosciuti, fanno ormai parte del lessico politico e giornalistico, dove sono finiti “impastati” con altri termini di successo come “giustizia sociale” ed “equità”, nuovo vocabolo semantico, quest’ultimo, particolarmente in voga a sinistra. Chi ha avuto la fortuna di leggere i saggi di Eugenio Somaini, professore ordinario di politica economica, che ha dedicato i suoi studi alle teorie dell’uguaglianza, alla diffusione delle democrazie ed alle libertà individuali e collettive, può ben discernere su queste cose. Le disuguaglianze economiche non devono essere necessariamente considerate come un problema per la società. Esse possono rappresentare – per quanto, per certi versi, ciò appaia paradossale – un fattore benefico. La tesi sostenuta è che la formazione del valore e della ricchezza avviene attraverso processi di tipo creativo, nei quali le capacità personali dei singoli individui svolgono un ruolo decisivo. Processi umani, sì, ma che trovano espressione principalmente nelle innovazioni e nell’impresa capitalistica. E’ infatti vero che questi processi determinano una significativa concentrazione della ricchezza nelle mani di coloro che si sono affermati grazie alle proprie capacità. La valutazione delle rilevazioni statistiche sulla concentrazione di ricchezza, tende, tuttavia, in maniera sistematica, a non tener conto del fatto che i soggetti che occupano le posizioni di vertice cambiano continuamente. In parole povere: il numero dei ricchi, per quanto grande o piccolo possa essere, non è riferito sempre alle stesse persone. Insomma: tende a cambiare perché anche in questo caso la competizione e l’innovazione determinano, in maniera diversa, chi sia riuscito ad arricchirsi e chi no. Concetti che vengono ignorati da chi li maneggia malfidato, prefigurando che oltre che pochi, i ricchi siano sempre gli stessi: una casta odiosa ed identificabile, immeritatamente assurta ai vertici sociali. Gente ritenuta, per questa stessa condizione, avida ed insensibile agli odi ed ai rancori sociali, ma partecipe di un gruppo che muta di continuo. Tanto in ragione dell’evoluzione del successo che ottiene in rapporto alle mode, ai gusti ed alle necessità della gente comune. Insomma: è una scala di merito che cambia non di privilegi che si arroccano e si perpetrano nel tempo. 

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