Chi non ha mai sentito dire a qualche anziano: ”E’ un bravo giovane, onesto e faticatore”? Per secoli il concetto di lavoratore si è connesso ad una visione del mondo per la quale il faticatore, ossia quello che si impegna molto nel lavoro anche a costo di duri sacrifici, è di per sé anche una persona degna moralmente. Una ragazza che incontrava un indefesso faticatore non era solo fortunata perché aveva incrociato l’uomo che avrebbe provveduto ai suoi bisogni ma anche perché aveva trovato il partner stimabile sul terreno della moralità. E’ ancora così nell’epoca della fine o della estrema modificazione del lavoro così come l’abbiamo inteso per secoli? E’ ancora lecito identificare il lavoro con il sacrificio, con la sofferenza? Sono tanti i segnali che ci inducono a ritenere che questo caposaldo della nostra educazione si debba mettere in discussione. Fra le tante ragioni, alcune positive altre meno, che si possono addurre, vorrei proporne una stimolata da un articolo di Oliver Burkeman scritto per il Guardian e prontamente tradotto da L’internazionale. L’autore sostiene che si lavora bene, si aumenta la produttività solo se il lavoro piace, se ci si diverte (in senso ampio, naturalmente) lavorando. “La conferma l’ho trovata – scrive – leggendo la storia del prolifico sociologo tedesco Niklas Luhmann, in un affascinante libro di Sönke Ahrens intitolato ‘How to take smart notes’ (basato sul complicato sistema di catalogazione che Luhmann usava per organizzare le sue conoscenze). Come ha fatto Luhmann a pubblicare 58 libri e centinaia di articoli, senza contare diversi altri volumi pubblicati dopo la sua morte, avvenuta nel 1998, a partire dai manoscritti che aveva lasciato? Ci è riuscito perché, come diceva lui stesso: “Non mi costringo mai a fare qualcosa che non mi piace. Ogni volta che mi blocco, mi metto a fare altro”. Elenca una serie di obiezioni che a noi tutti vengono in mente, ma la più rilevante è che “molte persone non hanno il privilegio di fare un lavoro piacevole e gratificante, quindi non possono organizzare la loro giornata in base a quello che li fa stare bene. Questo è vero. Ma non è colpa dell’approccio alla produttività basato sul piacere di Luhmann. È colpa della società, in altre parole, è un tipo di problema che nessuna tecnica di produttività potrà mai risolvere”. Stando così le cose non si può che imboccare, per quello che è possibile, la strada del separazione del lavoro dall’idea della sofferenza e del sacrificio. “Nel suo libro “No sweat” – conclude Burkeman – la psicologa comportamentista Michelle Segar promuove una filosofia dell’esercizio fisico basata sul piacere, sostenendo che un obiettivo come “rimanere in buona salute” è troppo astratto per funzionare, le buone abitudini che riusciamo a mantenere sono quelle che troviamo divertenti”. Oggi, infatti, mi permetto di aggiungere, gli allenatori di calcio più intelligenti e vincenti sono quelli che privilegiano l’allenamento con il pallone (divertente) a quello cosiddetto a secco, solo esercizi fisici, noiosi fino alla morte. Riusciremo a costruire una società a misura di lavoratore appassionato e interessato, semmai con il pieno e intelligente uso della tecnologia? A giudicare dal dibattito politico, non solo italiano, attuale, sembra di no. Ma non è detta l’ultima parola se riandiamo a San Benedetto che nell’imporre le regole ai suoi monaci non dimenticava mai di invitarli alla gioia, alla letizia. La nostra civiltà non è fondata esclusivamente sulla identificazione della fatica con il dolore.