L’avvocato Garofalo: “Giustizia, stessi problemi da secoli”

Il decano dei penalisti: “Interrogatorio prima dell’arresto? C’è il trucco: può essere posticipato". E sulla questione dell'abuso d'ufficio: "Fu affrontata alla fine del ’700 nella costituzione della Repubblica Napoletana”

L'avvocato Giuseppe Garofalo durante l'intervista
L'avvocato Giuseppe Garofalo durante l'intervista

L’avvocato Giuseppe Garofalo, oggi unico testimone dell’antica e prestigiosa scuola forense di Santa Maria Capua Vetere, ci accoglie nel suo studio privato, al piano terra della casa nella zona di piazza Padre Pio. Gli scaffali pieni di libri, le scrivanie coperte da fogli scritti a mano, antichi documenti e altri libri. Ha appena compiuto 100 anni, il fondatore della Camera Penale di Santa Maria Capua Vetere. “La prima in Italia”, specifica orgoglioso. All’epoca non c’era nemmeno a Napoli, per dire, e lui scavando nel passato aveva rinvenuto l’atto costitutivo dell’organismo rappresentativo dei penalisti partenopei.
Aveva quindi deciso di formarne uno nella sua città e di quell’ente oggi è presidente onorario, dopo essere stato per anni coordinatore delle camere penali di tutta la Campania. Ci mostra documenti preziosi, come gli articoli dell’epoca sul rapimento di Francesco Coppola, 19enne figlio del costruttore Vincenzo, a Castel Volturno, il 23 aprile del 1980. Fu Garofalo a fare da mediatore con il gruppo di rapitori, che si presentava come “Volpe Rossa”, per la liberazione del ragazzo.
Da penalista ha seguito i processi più importanti, insieme o contro colleghi illustri come Alfredo De Marsico o Giovanni Leone, ex presidente della Repubblica. Da quello alla camorra di Raffaele Cutolo a quello per l’assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale da parte della mafia nel ’55, nel quale difendeva la madre di Carnevale, Francesca Serio. Garofalo è conosciutissimo anche come raffinato scrittore e storico. Ha pubblicato saggi memorabili come “La seconda guerra napoletana alla camorra”, “L’empia bilancia”, “Le ragioni del boia”, “Teatro di Giustizia” e altri. Un uomo e un professionista d’altri tempi, che però non ha mai smesso di interessarsi all’evoluzione della società, alle sue conquiste e alle sue nuove contraddizioni. Con i giornalisti di Cronache commenta la proposta di riforma della Giustizia del ministro Carlo Nordio, alla quale sta lavorando il Parlamento.

Si parla dell’abolizione di tipologie di reato additate come ‘nebulose’. Lei cosa ne pensa?

L’abuso d’ufficio, così come disciplinato nel codice penale, va sicuramente cambiato. Abolirlo presenterebbe comunque dei rischi. Oggi molti lamentano l’eccessiva discrezionalità dei magistrati. Ma se priviamo il magistrato della possibilità di intervenire nei confronti degli amministratori che tengono determinati comportamenti, potremmo trovarci di fronte al problema della libertà illimitata dei sindaci. Secondo me sarebbe un problema ben più grave. Contro l’azione del magistrato abbiamo la possibilità di difenderci o di impugnare le sentenze. Contro gli abusi dei sindaci non avremmo tutele. In ogni caso, è un problema molto antico. Un esempio è quello di Mario Pagano, grande avvocato, grande politico, ministro della giustizia della Repubblica Napoletana, che fu condannato a morte e impiccato in piazza Mercato a Napoli. All’epoca lavorò a una bozza di Costituzione repubblicana. All’articolo 202 la Carta recitava: “I giudici non possono mescolarsi nell’esercizio del potere legislativo né fare alcun regolamento. Non possono arrestare o sospendere l’esecuzione di una legge né citare davanti a loro gli amministratori in ragione delle loro funzioni”. Una riforma ben più radicale di quella di Nordio. Ma Pagano si pose anche altri problemi che ancora oggi infiammano il dibattito pubblico. I tempi della giustizia, ad esempio. Oggi ci si sorprende del fatto che un processo possa durare dieci anni o più. La domanda è: la giustizia deve essere rapida o lenta? Pagano non era d’accordo con chi chiedeva processi più rapidi. La giustizia ha i suoi tempi. Un processo rapido non necessariamente è un processo giusto. Anzi, il rischio è che sia vero esattamente il contrario.

E’ in corso un dibattito molto animato, anche a livello europeo, sui temi della presunzione di innocenza, del rispetto della dignità dell’indagato, dell’utilizzo delle intercettazioni e della pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo del pm durante le indagini. Il giustizialismo è al tramonto?

Quanto alle intercettazioni, secondo me si sta facendo troppo chiasso su una norma che dovrebbe essere approvata senza troppe discussioni. Si tratta di impedire che vengano divulgate dichiarazioni di persone non coinvolte nelle indagini ma che vengono intercettate. Che bisogno c’è di pubblicarle sui giornali?

La riforma Nordio prevede anche la necessità che l’indagato venga interrogato insieme al suo avvocato da un collegio di tre giudici prima che si possa procedere all’applicazione di una misura cautelare nei suoi confronti. Così non si rischiano abusi?

Beh, ovviamente molti pensano che, a meno che l’imputato non sia stupido, scapperebbe subito una volta ricevuto l’invito a presentarsi all’interrogatorio. Per i giuristi più anziani, di vecchio stampo, il problema non è nuovo. Giuseppe Maria Galanti, che è l’autore della “Breve descrizione della città di Napoli e del suo contorno”, diceva che l’interrogatorio è di per sé un inganno, perché il giudice che pone le domande conosce già tutto il procedimento e può preparare prima i suoi quesiti. L’indagato non sa nulla in anticipo, quindi non può prepararsi le risposte. Durante il Regno delle Due Sicilie e, prima ancora, durante la dominazione spagnola, c’era una regola. Ne ho parlato lungamente in un capitolo del mio libro, “L’empia bilancia”. Veniva chiamato il monitus. Era l’interrogatorio dell’imputato che veniva fatto in un modo particolare. Quando erano stati raccolti tutti gli elementi di prova e c’era un dubbio sulla sussistenza dei presupposti per l’arresto dell’indagato, si procedeva a un interrogatorio in cui ci si rivolgeva alla coscienza dell’imputato. Allora c’era ancora una coscienza, oggi a volte non ce l’hanno nemmeno i magistrati. Durante l’interrogatorio l’imputato doveva giurare e chiamare Dio a testimone. Doveva promettere che avrebbe detto la verità. All’epoca c’era un sentimento religioso molto forte e fare falso giuramento sarebbe stato un atto gravissimo. Ecco perché i giudici si rivolgevano alla religione e alla coscienza per cercare la verità. Tornando all’interrogatorio di Nordio, il ministro vuole che venga fatto prima dell’arresto. Ma poi dice che ci può essere anche un arresto temporaneo, prima dell’interrogatorio. Allora stiamo solo scherzando. Anche adesso l’arresto è temporaneo.

Sul tavolo c’è anche la preclusione dell’impugnazione della sentenza di assoluzione in primo grado da parte dei pubblici ministeri. Una norma sicuramente favorevole all’imputato. Ma in Italia non è affatto un caso raro che le sentenze di primo grado vengano ribaltate in appello o in Cassazione. Così non si rischia di dare al giudice di primo grado un potere ancora maggiore?

Secondo me su questo punto si dovrebbe inserire una norma secca, asciutta, senza inutili giri di parole che di solito servono solo ad alimentare polemiche inutili. Se l’imputato viene assolto con formula piena, la sentenza non può essere impugnata dal pm. Punto. Per il resto, non capisco perché non sia stata affrontata in questa sede anche la questione della separazione delle carriere. E comunque il pubblico ministero è una parte nel procedimento, e in quanto tale non può essere privilegiata rispetto all’altra parte, l’imputato. Dovrebbe essere quest’ultimo, piuttosto, ad essere messo in una posizione privilegiata, visto che il processo si svolge sulla sua pelle.

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