La vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva alle presidenziali in Brasile, ha suscitato molta soddisfazione ed entusiasmi tra le fila della sinistra Italiana. Una salutare boccata di ossigeno sia per il Pd, sia per l’arcipelago delle sigle nostrane che si richiamano ai principi del socialismo, dopo la cocente sconfitta subita alle ultime Politiche. Le facce meste e le critiche esacerbate sono sparite, come d’incanto, innanzi alla nuova icona internazionale da adottare come esempio di una scelta vittoriosa, non percepita, però, dal popolo italiano. Hanno tripudiato taluni ecologisti, verdi di fuori ma rossi di dentro, che ora danno per certa la fine della deforestazione in Amazzonia e il rilancio di una virtuosa azione in favore della difesa dell’ambiente. Eppure tutto questo entusiasmo porta con sé una profonda contraddizione che viene sapientemente sottaciuta se non ignorata nei salotti televisivi e nei giornali che spalleggiano la “gauche” tricolore. Il lettore ricorderà, infatti, che, non più tardi di un decennio fa, la sinistra e la frangia variegata che la sorregge (quella giustizialista e moralizzatrice), diedero vita ad una campagna denigratoria contro tutti coloro che sceglievano di candidarsi nonostante fossero stati destinatari di avvisi di garanzia, indagati, oppure avessero scontato una pena loro inflitta da un magistrato. Il termine coniato per costoro fu quello di “impresentabili”. Vi incapparono a decine, malamente esposti al pubblico ludibrio ed all’imperituro sospetto di essere indegni di poter rappresentare gli elettori. Insorse finanche la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi, la quale, travalicando i compiti e le funzioni ad essa assegnati, si peritò di fare un elenco degli “incandidabili”. A nulla valse il rilievo che nello Stato di diritto la morale risiede nella legge, che se quest’ultima ne consentiva la candidatura elettorale, alcun dubbio o perplessità poteva essere elevato a principio di etica pubblica, ovvero ad ostacolo insormontabile affinché questi cittadini potessero scendere nell’agone politico. Insomma: l’esercizio di un diritto, conforme alla legge, non valeva nulla perché c’era chi elevava oltre la legge stessa la propria personale, contraria, sensibilità morale. Inutile evidenziare che questa estrapolazione moralistica era puntualmente orientata a discreditare i candidati della concorrenza, anche quelli condannati per una semplice multa automobilistica, e come tali degni di riprovazione e di sentenze morali che anticipavano finanche quelle emesse dal giudice competente. Ancora oggi c’è chi pretende di fare conteggi tra le fila dei parlamentari eletti per individuare coloro che sono inquisiti oppure lo sono stati e condannati ma che hanno già pagato il loro conto alla giustizia, riabilitandosi. Un’opinione diffamatoria ed illegittima che per molto tempo è servita ad aizzare il rancore sociale, accreditare l’idea che la classe dirigente potesse essere considerata come un coacervo di avanzi di galera oppure collusi col malaffare. Una costumanza che pare si sia assopita negli ultimi tempi anche perché non sono pochi gli uomini di sinistra a essere finiti nel registro degli indagati e, peggio ancora, nella schiera dei condannati. A mettere ulteriormente la sordina a tale modo di agire politico credo abbia contribuito anche lo scandalo Palamara che ha ridotto l’aurea di credibilità, di integrità e indipendenza dei magistrati politicizzati. Un oblio che porta a dimenticare, o fingere di farlo, che Lula, in Italia sarebbe stato dichiarato “impresentabile” e certamente non candidato alla carica di Presidente della Repubblica a causa dei propri trascorsi giudiziari. Arrestato e condannato, al termine del suo primo mandato presidenziale, il leader brasiliano è tornato in campo regolarmente, senza strascico polemico alcuno, battendo il candidato della destra Jair Bolsonaro, premier uscente del Brasile. Lula, semplicemente, ha ripreso a fare politica riannodando le fila dei contatti internazionali come si conviene. Venuto in Italia a stringere intese con la sinistra, nel suo insieme, non è stato accolto con termini spregiativi, quali quelli riservati a Craxi o Berlusconi, di pregiudicato, condannato, impresentabile. Eppure, una volta a giudizio, è stato ritenuto colpevole di aver accettato tangenti del valore di 1,3 milioni di dollari venendo condannato nel 2017 dal giudice Sérgio Moro, in primo grado, a 9 anni e mezzo di prigione, passati a 12 anni in appello. Nel frattempo, in quella nazione, nessuno lo ha linciato lanciandogli monetine né facendolo espatriare anche dopo una condanna definitiva. Si è salvato con una sentenza della Suprema Corte per questioni meramente procedurali che in nulla hanno cambiato i verdetti emessi. In Italia sarebbe successo il finimondo. Si dirà che la giustizia in Brasile è aleatoria, rabberciata e approssimativa, ma i fatti restano. Quello che oggi preme evidenziare è l’assoluzione collettiva dei moralisti nostrani, quelle vestali divenute all’improvviso delle mezze vergini dai candidi manti, per scopo politico.