Si avvicina la caduta del governo gialloverde, nato da un estemporaneo compromesso programmatico tra due forze, Lega e 5S, troppo distanti e distinte tra di loro.
In questo clima non sono pochi coloro i quali invocano la nascita di un nuovo partito in grado di aggregare quanti si ritrovano sotto l’ala del riformismo. Alcuni già indicano nel “centro” il punto di approdo di questa nuova creatura, come se la semplice equidistanza tra quel che ancora ha parvenza di destra e di sinistra nell’Italia del populismo e del sovranismo, basti per indirizzare gli elettori alle urne. Altri fanno un piccolo sforzo ed indicano in un’area liberal democratica, moderata, il perimetro entro il quale costruire una nuova prospettiva. Parole, in vero, vaghe perché prive di reali riferimenti a fatti concreti di proposte di cambiamento dello Stato. Chiacchiere poco identificabili dalla massa degli elettori, sia da quelli che da tempo hanno, colpevolmente, rinunciato al voto, sia da coloro che oggi votano in maggioranza il Carroccio. Questi ultimi rappresentano un’Italia approssimativa ma votante ed in grado di orientare le scelte politiche.
E’ il caso di dire che se Berlusconi, un tempo, interpretava quel che gli italiani volevano essere, Salvini li interpreta oggi per quello che realmente sono, e cioè: una massa che si informa velocemente sui principali social network e che tende a qualificare il confronto tra tesi diverse come una perdita di tempo. Una volta il ceto medio si orientava con discernimento seguendo anche scelte le ideologiche impostate dai partiti di massa. Ora è stato ridotto a difendere quel poco che ai borghesi è rimasto: la normalità e lo stipendio. Normalità intesa come vita tranquilla al sicuro da immigrati e violenti. E stipendio inteso come remunerazione preferibilmente statale erogata a vita, variabile indipendente del lavoro e della produzione.
In sintesi tutto quello che è mille miglia lontano da ogni concreta ipotesi di riforma liberale dello Stato, di libertà per il cittadino e le imprese, di equa tassazione e di competizione basata sulla qualità dei servizi resi agli utenti in grado di poter scegliere e determinare le sorti delle aziende che tali servizi erogano. Un liberalismo, cioè, che faccia dell’economia di mercato e di concorrenza, il motore della produzione della ricchezza non discriminata né redistribuita secondo i canoni dell’invidia sociale, ma in parte utilizzata per la solidarietà ed elargita a chi realmente ne ha bisogno.
Oggi, con la crisi di governo ormai dichiarata, in tanti inneggiano alle elezioni anticipate sperando che il truce Salvini si accaparri una maggioranza schiacciante in Parlamento per poter finalmente fare le riforme costituzionali con un consenso dei due terzi tale da non richiedere referendum approvativi: giustizia, fisco, scuola. E infine una riforma elettorale che restituisca all’Italia l’alternanza dei governi imperniata sulle coalizioni. Una riforma che lasci scegliere all’elettore, prima del voto, il premier ed il suo programma in un sistema di collegi uninominali di piccole dimensioni per ridare equilibrio politico al sistema. Una serie di riforme, per dirla tutta, che, se avviate, potrebbero riportare l’Italia in auge ma, di converso, anche accentuare il distacco tra Nord e Sud. Ed ecco il punto dolente: non deve mancare l’idea di un liberalismo garantista ed equilibrato, basato sull’idea dello Stato efficiente e trasparente. Pertanto quelle auspicate riforme, non devono poi ritorcersi contro la Nazione. Il populismo approssimativo, che procede per parole d’ordine orecchiabili, potrebbe scavare solchi laddove, invece, c’è bisogno di costruire ponti.
Insomma: dare una delega in bianco a Salvini, conferirgli una maggioranza schiacciante, potrebbe rivelarsi un pericoloso salvacondotto per fare e disfare applicando un liberalismo alle vongole. Una serie di enunciati liberali, cioè, che servano a coprire mal sopiti sogni di secessione senza traumi. Questo in fondo il pericolo che grava sul voto alla Lega, e che nel Meridione farebbero bene a tenere in debito conto. Gli italiani dovrebbe avere quel tanto di giudizio da recarsi alle urne consapevoli che in quel preciso gesto risiede la garanzia di libertà e di benessere. Troppi sono stati quelli che si sono lamentati e poi ritirati sdegnosi sull’Aventino, guardando la politica dall’alto verso il basso. Troppo facile e troppo semplice lasciare i propri interessi in mani altrui. Luigi Einaudi scrisse una serie di articoli già negli anni ‘60 del secolo scorso denunciando i guasti ed i pericoli dello statalismo e la crisi del liberalismo. Le chiamò, appunto, le prediche Inutili!!