di Vincenzo D’Anna
“L’epoca degli smartphone, ma anche delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale in genere, è quella in cui, non per caso, l’intelligenza umana regredisce. Però, calcolando che l’intelligenza è la facoltà specifica con cui l’uomo opera nel mondo (e vi sopravvive), dobbiamo chiederci se non si stiano ponendo le basi per l’eclissi dell’umano, almeno come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi”. Con queste semplici e tragiche parole il filosofo Paolo Ercolani ci illustra quanto sia in via di costante degrado il nostro intelletto in ragione dell’implementazione della tecnologia di cui disponiamo. Un altro filosofo, Emanuele Severino, ci aveva avvertiti, alcuni decenni addietro, che farsi sostenere dalla cosiddetta “modernità” avrebbe potuto renderci dipendenti se non prigionieri della medesima. E’ vero. L’uomo del terzo millennio trae sempre più vantaggi dalle continue alzate d’ingegno che poggiano su macchine, computer e strumenti d’ingegneria digitale. Tuttavia si avvia ad essere sempre più ignorante con il suo bagaglio di conoscenze generali che si fa, via via, limitato. Se il fine ultimo è quello che mira ad avere una ricaduta tecnologica in grado di alleviare le sofferenze della vita e i pesi del lavoro, ampliando la gamma di comodità, ogni altra attrattiva intellettuale finisce per arretrare nella scala dei valori che ispirano la condotta umana. Se tutto, alla fine, assume un prezzo, nulla resterà che abbia un valore. Non bisogna attingere a mani basse nella retorica per rendere un esempio di quanto la dispersione dei saperi generali, dell’idealità, della spiritualità, della solidarietà, dell’amore di patria, del trascendente, abbia modificato quello che una volta si chiamava “umanesimo”. E quale società civile, democratica e solidale può essere edificata senza il contributo della cultura, dei sentimenti e della consapevolezza di essere destinati a trasformarsi in quegli eroi assurdi di cui parlava Albert Camus nel mito di Sisifo? Un eroe che, pur consapevole della brevità e della caducità della vita, solleva il macigno e rinnega gli dei, felice di poter adempiere al proprio destino. E quando quasi tutto dipenderà dalla tecnologia, su quale tipo di umanità potranno contare le future generazioni? In cosa crederanno, come fine ultimo da dare alla loro vita? Quest’ultima certo sarà più lunga, comoda e sana, ma avranno le “nuove leve” un ideale di bellezza e di grazia a cui ispirarsi? Avranno sentimenti che sopravanzeranno le utilità? Senza un vero umanesimo, cioè, saranno capaci di interrogarsi sull’essenza dell’esistenza? Interrogativi, questi, che la società digitale, veloce quanto epidermica, tende a sottacere nell’era in cui fermarsi a pensare equivale a trovarsi fuori dalla modalità più seguita. Inondati come siamo da un fiume di notizie e di informazioni, le scambiamo per cultura, per insegnamenti di vita. Una volta si conoscevano le persone per scegliersi gli amici, ora, al contrario, accettiamo gli amici, come contatti attraverso i social, senza mai averli visti. Nelle scuole il tema è stato abolito e con esso la capacità, per chi insegna, di conoscere le doti d’immaginazione degli studenti. Storia e geografia sono state dimenticate e con esse la conoscenza delle vicende e degli “eroi” che hanno costruito la civiltà. Da queste macerie è sorta l’era dell’ignoranza, non più ostativa perché surrogata dai congegni che sostituiscono la conoscenza e ci offrono risposte esemplari senza che si articoli il pensiero e l’esercizio di sapersi porre delle domande. Misuriamo tutto con macchinari precisissimi ed avveniristici; cominciamo a conoscere la vita biologica nella sua intima essenza funzionale ed i segreti dell’universo non ci spaventano, avviandoci verso un ateismo scientifico che non fa i conti col creato. Un affresco allarmante per quanti non hanno eletto la tecnica e la rete cibernetica a surrogato di Dio. La possibilità che ci viene offerta di poter manipolare gli embrioni e le caratteristiche biologiche dei nascituri, poter scegliere la “dolce morte” sono ritenute conquiste dell’uomo onnipotente. Se innanzi a noi aumentano gli interrogativi esistenziali, abbiamo maggior bisogno di elaborare il dubbio e con esso il pensiero critico. Bertrand Russell, a chi chiedeva a cose servisse la filosofia, rispondeva che non insegnava a dare risposte, bensì a saper porre le domande che contano. L’esercito del continuo apprendimento e l’uso delle doti e dei valori umani ci ha portato dalla caverna alla civiltà. Ne abbiamo ancora bisogno?