Poverino, Roberto Saviano. Con l’ennesima figuraccia fatta da lui e dai suoi editori, la Mondadori della famiglia Berlusconi, sulla ormai nota vicenda degli articoli di Cronache copiati e incollati nel romanzo “Gomorra”, ha perso la faccia e l’autocontrollo. D’altra parte i giudici della Corte di Cassazione lo hanno rispedito in Corte di Appello con la patente di “contraffattore” e “plagiario”, chiedendo ai colleghi di Napoli di condannarlo a pagare una cifra proporzionata ai “guadagni illeciti” che ha realizzato con il libro.
Naturalmente il Nostro, lungi dal considerare l’opportunità di un ravvedimento operoso, di un minimo di scuse con rimborso quantomeno simbolico a coloro che hanno comperato il suo libro a prezzo pieno credendolo originale in ogni sua parte, di un segnale distensivo verso i colleghi ingiustamente saccheggiati del proprio lavoro, ha attaccato con il solito piagnisteo. Stavolta in versione complottista: la sua condanna irrevocabile rientrerebbe in un più ampio disegno criminoso volto a impedirgli di scrivere, di denunciare e forse anche di partecipare alla trasmissione di Maria De Filippi.
Disegno criminoso, ed è difficile dirlo senza sorridere, messo in atto dai giornalisti plagiati in combutta con i giudici della prima sezione civile della Suprema Corte e con non meglio specificate organizzazioni criminali. Non solo, l’ha buttata pure in politica, mettendoci dentro Giorgia Meloni. Così, di botto, senza senso. Per tuffarsi, infine, letteralmente nel genere Fantasy, tirando in ballo Atreju, il protagonista della Storia Infinita, “con cui questi giornalisti e questi editori hanno a che fare”. Ha detto proprio così, con aria di mistero. Mancano solo gli Umpa Lumpa, i Cugini di Campagna e Sotomayor…
C’è da capirlo, con la sua ultima “fatica” letteraria fresca di stampa e la serie tv coi camorristi fighi ancora in palinsesto questa legnata sulla zucca non ci voleva proprio. Ma le sentenze, lo sa persino lui, non sono romanzi. E nemmeno fiction. Reazioni così scomposte fanno male solo alla sua immagine di paladino della legalità, che dovrebbe rispettare la legge e il lavoro di chi ha il delicato compito di applicarla. Un’immagine che è stato lui a macchiare decidendo di copiare, non certo i magistrati.