Se il Sud non è competitivo la colpa è di una mancata concretizzazione di un’economia di mercato che, secondo alcuni analisti, non si è dispiegata come tale.
Il mercato, secondo questi, poteva e doveva essere regolatore di tutto, con precisi requisiti economici: salari differenziati (gabbie salariali), flessibilità del lavoro e basso salario di riserva.
Era meglio avanzare, quindi, verso più pesanti differenziali territoriali con il centro-nord, creando un Mezzogiorno appetibile affinché i lavoratori potessero accettare salari da fame e meno tutele e diritti. Altro che equità e pari opportunità tra nord e sud!
Oggettivamente il Sud ha da rimproverarsi alcune scelte fondamentalmente negative, che lo hanno ulteriormente fatto arretrare: economia sommersa e illegale, una imprenditoria sostanzialmente politica ed un ceto di amministratori che ha avuto cura di indirizzare le risorse verso iniziative imprenditoriali poi rivelatesi fallimentari.
Ma più a fondo va notato che i modelli economici presentati al Sud hanno creato ciò che esso stesso allo Stato rappresenta, ovvero una macro-area sostanzialmente depressa. Per esempio, i trasferimenti di capitale nel Mezzogiorno, verso i quali tutti menano il can per l’aia, hanno consentito di far crescere la sola grande impresa, mortificando, di fatto, un’economia locale fatta di imprese di piccole e medie dimensioni. Così come la scelta di indirizzare i soldi massicciamente su alcuni settori (es. edilizia), comprimendone altri. Motivo per il quale le imprese esterne al Sud hanno preferito mantenersi lontane.
Secondo questa corrente di pensiero il Mezzogiorno ha cominciato a perdere competitività nel momento in cui si sono superate le gabbie salariali, ovvero quando i salari sono stati sganciati dal costo della vita, con paghe differenti tra nord e sud che arrivavano fino al 30% in meno da queste parti.
Mentre la Pubblica Amministrazione, presa in ostaggio da gruppi di politici ed amministratori locali, ha sacrificato la spesa per investimenti ed elargito più spesa corrente, perdendo, in questo modo, una visione organica di Mezzogiorno e pensato ad ingrassare clientele politico-affaristiche. È del tutto evidente, allora, che il Sud debba superare barriere fisiche, economiche e culturali. Ma in che direzione?
Prima di tutto con un approccio endogeno, ovvero con una reazione delle forze interne presenti, capaci di creare un’economia di urbanizzazione, avanzare su specializzazioni tecniche, acquisendo una metodica progettazione dello sviluppo che si connoti per indagine scientifica e attività didattica, creando una struttura di governo delle relazioni fra i diversi soggetti locali. Insomma, un Sud che esca dal guscio e delinei forme organizzative a rete, senza farsi importare modelli di sviluppo pensati altrove, ma producendo dentro di sé relazioni culturali ed economiche.
Solo così si potrà definitivamente abbandonare la malsana idea di mettere i territori del Sud in competizione tra di loro, ovvero quelle economie di localizzazione che lasciano ai margini pezzi di territorio, favorendo la crescita del terreno dell’abbandono sociale ed economico, quei brodi di coltura che alimentano deviazioni sociali ed urbane.
Il riscatto del Sud può essere a portata di mano, ma anche una piccola ulteriore “disattenzione” potrebbe definitivamente seppellirlo.
*scrittore e meridionalista