CASAPESENNA – L’esigenza di garantire diagnosi e cure che a Sassari non erano più possibili: è il motivo principale che ha spinto il tribunale di Sorveglianza a concedere i domiciliari a Pasquale Zagaria. Ma a supporto di quella decisione, i giudici hanno inserito anche le motivazioni della Corte d’Appello usate, qualche anno fa, per revocargli la misura di prevenzione.
Le parole “rassicuranti?!”
Secondo i togati partenopei, l’appartenenza di Zagaria “all’associazione camorristica”, diretta dal fratello Michele Capastorta, era “attuale all’epoca del decreto emesso” ed anche nel 2011. Però il suo costituirsi spontaneamente in carcere (i pentiti, in realtà, dicono che nel 2007 lo avrebbe fatto su indicazione del germano capoclan) e le confessioni “rese in ordine a gran parte dei reati contestati”, agli occhi dei giudici hanno rappresentato “un inequivocabile sintomo di iniziale ravvedimento”.
La circostanza ha indotto la Corte ad escludere ad oggi “la concreta operatività” dell’imputato nella cosca casapesennese. Ed anche i procedimenti penali pendenti, “riguardano fatti risalenti a periodi coevi o antecedenti a quelli dei reati già giudicati con le sentenze in esecuzione”.
La Sorveglianza, citando le parole del verdetto d’Appello e ritenendole “rassicuranti”, a nostro avviso viene tracciato un dipinto del boss erroneamente al ribasso.
Ora, Pasquale Zagaria, mente economica del gruppo criminale, sarebbe diventato (ma concedeteci di avere più di qualche dubbio) un personaggio marginale del clan. Una considerazione che inevitabilmente ha contribuito a far pendere Sassari verso il sì ai domiciliari in provincia di Brescia.
Gli ordini e le informazioni
Eppure, stando alle recenti indagini della Dia, fino a poco tempo fa (2017), tra gli Zagaria le informazioni e gli ordini, grazie ai colloqui dei boss in cella con i loro familiari, circolavano con una frequenza elevata. Altro che canali interrotti. Un giro di messaggi sottesi che ha messo i fratelli (direttamente e indirettamente) al corrente delle dinamiche malavitose.
Una procedura comunicativa non improvvisata, che, una volta individuata dagli investigatori, ha spinto l’Antimafia a coinvolgere Michele Zagaria in un nuovo processo dinanzi al tribunale di Napoli Nord (iter ancora in corso). Perché non si trattava solo di informazioni recepite. Secondo la procura distrettuale, invece, Capastorta, dal carcere, sfruttando le visite dei suoi cari e i messaggi diffusi durante le udienze in video-collegamento, avrebbe continuato a dettare la linea all’organizzazione mafiosa. E in uno scenario mafioso del genere, tuttora vivo e strutturato, Pasquale Zagaria, ‘delegato’ per anni agli investimenti al nord della cosca, sarebbe diventato, seppure fino a qualche giorno fa al 41bis, non centrale per l’organizzazione? E addirittura sarebbe stato folgorato da un ravvedimento?
L’indirizzo sbagliato
Pericolosità o meno a parte, la Sorveglianza, nello spiegare il sì agli arresti in casa del boss (almeno fino al 22 settembre), ha ricordato anche di aver chiesto al Dap “se fosse possibile individuare altra struttura penitenziaria su territorio nazionale ove effettuare il follow up diagnostico e terapeutico (perché Zagaria, malato di tumore, ha subito un intervento chirurgico), ma come detto, non è pervenuta alcuna risposta, neppure interlocutoria”.
La prima richiesta arriva l’11 aprile e il Dap risponde chiedendo la cartella clinica il 14. Il quotidiano La Verità ieri ha sostenuto che le “e-mail inviate dal Dipartimento ai giudici sassaresi per segnalare che si sta tentanto una ricerca in extremis presso le strutture protette del Lazio vengono spedite a un indirizzo sbagliato: il nome del destinatario viene scritto con una vocale e in più. E’ anche per questo – scrive il cronista Maurizio Tortorella – se, nulla avendo ricevuto dal Dap, quel giorno il tribunale concede i domiciliari a Pasquale Zagaria”.
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