S. MARIA CAPUA VETERE – “Fa più freddo qua dentro che fuori”. Le correnti, forse gli spazi larghi, magari perché quei corridoi erano vuoti. Al di là delle cause, la sensazione era palese: mentre attraversavamo il padiglione Tamigi, poi il Tevere e infine il Nilo, la temperatura si abbassava. Ad ogni svolta in viso arrivavano folate di vento fresche, a tratti pungenti. Più ci addentravamo e più cresceva il freddo. Fino a quando siamo entrati nella Cappella. Lì ad aspettarci c’erano i ‘diversamente liberi’, come li chiama Samuele Ciambriello, garante dei detenuti. Erano seduti tra i banchi, ridevano, chiacchieravano. Di scatto si sono voltati per guardarci: giornalisti, microfoni, fotocamere, videocamere. Eravamo arrivati tutti insieme. Eravamo la novità.
Così hanno cominciato a studiarci. E quel freddo è iniziato scomparire. Quel senso di chiuso, di svolte infinite che ricordano un labirinto, lentamente ha lasciato spazio al calore degli applausi, degli interventi di Susy Cimminiello e Carmela Sermino: le due donne, ieri pomeriggio, nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, hanno ricordato i loro cari uccisi dalla violenza della camorra. Hanno raccontato le proprie storie.
E’ stato un “mercoledì d’evasione”: ad organizzare l’evento l’associazione La Mansarda. “Legalità, responsabilità e giustizia riparativa” il tema dell’incontro con cronisti e detenuti trattato da Franco Roberti, assessore regionale alla Sicurezza, e Marco Puglia, magistrato di Sorveglianza. Dopo l’introduzione di Elisabetta Palmieri, direttrice del carcere, è intervenuto Ciambriello: “Bisogna fare memoria di quello che è accaduto. La camorra – ha spiegato il Garante – non è una madre premurosa e severa. Ormai c’è la morte del cuore”. E spesso chi fa parte delle organizzazioni criminose “sniffa cocaina e spara all’impazzata”.
Dopo è toccato parlare a chi è stato travolto in prima persona dalla criminalità organizzata: Susy e Carmela ai detenuti sammaritani hanno raccontato le tragedie patite.
L’intervento di Roberti
Per superare il dolore bisogna ricordare e, una volta pronti, guardare in faccia chi ha causato lo strazio. Serve riconciliarsi. Proprio questa esigenza è stata analizzata da Roberti. Lo ha fatto citando un personaggio che per amore della libertà e dell’uguaglianza è stato detenuto per un periodo lunghissimo: “Mandela è stato in carcere 27 anni di fila – ha detto l’assessore. – Mentre era in prigioni capì che era necessaria la riconciliazione tra la vittima e carnefice”. Chi è in cella deve ambire ad un riscatto sociale. “Senza non può esserci rieducazione. E non c’è rieducazione senza riconciliazione”.
“Ho fatto il magistrato per 40 anni – ha continuato Roberti – Sono stato in procura a Napoli, poi a Salerno e infine alla Direzione nazionale antimafia”. Un’esperienza vasta, ma nella sua lunga carriera a lasciare un segno indelebile sono state le udienza di ‘sorveglianza’. “Dopo anni incontravo uomini diversi rispetto a quando li avevo visti per la prima volta”. Al momento delle manette rischiavano “di apparire mostri”. “A distanza di anni, quando bisognava discutere” della loro ipotizzata pericolosità sociale “subentrava un cambiamento tangibile”. Ti accorgi che sono persone, che hanno tratti familiari.
Le vittime
Ma prima della ‘trasformazione’ c’è il sangue. E l’elenco delle vittime della criminalità organizzata in Campania è lunghissimo. “Siamo costretti ad aggiornarlo continuamente. Alcune sono state dimenticate”. I familiari di chi ha perso la vita per colpa della malavita avranno “ferite che forse non potranno essere mai guarite”.
“Spesso i cronisti chiedono loro se sono disposte a perdonare chi ha ucciso i loro cari – ha aggiunto Roberti. – Ma in quelle circostanze cosa vuoi perdonare? Magari può arrivare dopo. Prima serve che chi ha sbagliato espii la pena, poi revisionare tutto e infine confrontarsi. Se la vittima vuole è giusto che si incontri con il carnefice”. E quell’incontro diventa fondamentale per metabolizzare il dolore. Per superarlo.
Il dolore di Carmela e Susy raccontato ai detenuti: “Avete un’altra occasione”
Sono storie di violenza, di lacrime e sangue. Le hanno raccontate ai detenuti del carcere di Santa Maria con voce commossa. Lo hanno fatto con la speranza che quelle parole possano rappresentare un monito per chi ha già sbagliato, ma ha un’altra occasione.
Susy Cimminiello ha ricordato il fratello assassinato a Secondigliano il 2 febbraio 2010. “Tutto iniziò con una foto. Gianluca faceva il tatuatore. Pubblicò uno scatto con un calciatore. Diceva che l’artista era lui, non lo sportivo. Perché se veniva scelto dalla star per farsi tatuare è perché era bravo”. Dopo quel post, la tragedia. Reagì ad un’aggressione organizzata da un tatuatore rivale. “Mio fratello era esperto di arti marziali, faceva kickboxing”: e quella sua reazione fu punita con la morte ordinata dal clan.
“Io volevo giustizia. Gianluca venne sospettato di tutto. Poi la verità grazie ai processi e alla sua ragazza, che ora è diventata una testimone di giustizia, è venuta fuori. All’inizio volevo vendetta. Poi il giorno della prima udienza sono entrata in tribunale e ho visto chi lo aveva ucciso ridere, mostrarsi sicuro. Ma in quegli atteggiamenti spavaldi vedevo debolezza. Era una persona come me. Se quel ragazzo fosse nato in un’altra città – si è chiesta Susy – forse non sarebbe diventato un killer. Nella loro vita è mancato qualcosa. Mi costa tanto ricordare, ora. Parlo di mio fratello, ma non c’è più”.
Il colpevole di chi ha causato la morte di Giuseppe Veropalumbo, invece, non è stato ancora trovato. “Sono undici anni che cerchiamo giustizia – ha raccontato ai detenuti Carmela Sermino. – Eravamo in casa, nel posto più sicuro del mondo. Ma un proiettile ha ucciso mio marito. Era un carrozziere stimato. Era un onesto lavoratore”.
Una pallottola vagante la sera del 31 dicembre del 2007 spezzò la vita di Giuseppe. “Dopo la tragedia ci trasferimmo in un’altra città. Lasciammo Torre Annunziata. Mi sentivo tradita. Ora mia figlia ha dodici anni. Le ho dovuto fare da mamma e da padre. Peppe non può più tornare. Voi – ha concluso Carmela rivolgendosi ai detenuti – avete ancora la vita davanti. Avete un’altra occasione. Non sprecatela”.
Ciambriello: “La camorra si sta evolvendo, ora spara nel mucchio”
Sono circa mille le vittime innocenti delle mafie. Ma il numero, ha dichiarato Samuele Ciambriello, garante dei detenuti, è tendenzialmente in crescita per gli omicidi di criminalità comune e i femminicidi.
“Da diverso tempo invito, come presidente dell’associazione ‘La Mansarda’, i familiari delle vittime innocenti della criminalità organizzata a portare la loro testimonianza negli istituti penitenziari, rendendo possibile un incontro tra vittime e carnefici, un modo per parlare di giustizia riparativa e non un incontro di falso buonismo, un opportunità per metabolizzare il dolore, il lutto e anche per stigmatizzare la malavita”.
Quella andata in scena ieri pomeriggio, presso il carcere di S. Maria Capua Veetere è un’opportunità “di intercessione – ha aggiunto Ciambriello – non per il perdono giudiziale, ma per effettuare una mediazione, tra carnefici e i familiari delle vittime innocenti della criminalità”.
La malavita si sta evolvendo, sta assumendo “forme nuove e diverse rispetto a quelle, per così dire fisiologiche o almeno, tradizionali. Si spara e si agisce nel mucchio, avendo moventi assai futili o addirittura assenti. È indubbio che si debba fare prevenzione, soprattutto sugli adolescenti a rischio. È indubbio che vadano controllate le aree metropolitane e le periferie”. Ma occorrono, ha spiegato il Garante, pure “modifiche normative e burocratiche sullo status dei familiari delle vittime innocenti”.
Puglia: “Ogni persona deve sentirsi al posto giusto al momento giusto”
E’ stata l’Onu ad indicarla, a ritenerla necessaria. Ma il concetto di ‘giustizia riparativa’ in Italia è ancora una teoria fumosa. Non c’è norma che la prevede, che la regoli. Eppure il concetto che vuole rappresentare, ha affermato Marco Puglia, magistrato di Sorveglianza, è importante: indica un procedimento dove il reo e chi subisce il reato insieme cercano di risolvere l’illecito.
“Nel carcere di Santa Maria – ha spiegato Puglia – è in corso un progetto teso a promuovere il dialogo tra vittime e autori del reato”. Il lavoro del magistrato con alcuni detenuti è teso ad organizzare anche esibizioni teatrali.
“In occasione della nostra prima uscita ad Aversa – ha ricordato il togato – un detenuto, al suo primo permesso dopo un lungo periodo di detenzione, mi disse: ‘Dottore, mi sono sempre sentito al posto sbagliato al momento sbagliato. Oggi per la prima volta mi sento al posto giusto al momento giusto’. Dobbiamo impegnarci tutti affinché ogni persona possa sentirsi in questa terra ogni giorno al posto giusto al momento giusto”.