Non c’è niente da fare. Ennio Flajano ci aveva azzeccato già da mezzo secolo: “ In Italia la situazione politica è grave ma non è seria” aveva detto il celebre umorista e scrittore. Un epitaffio, il suo, che bisognerebbe incidere sul marmo policromo che adorna le aule parlamentari, a perenne monito di quanti, varcando quelle soglie, si illudono di poter trasfondere in legge la forza di propositi ed idee. Ma c’è di peggio. Di questi tempi non si ravvisano, infatti, né volontà definite e nette, né proposte che abbiano un preciso riferimento a valori e concezioni socio economiche dello stato, dell’economia e della società. Insomma qualcosa che somigli effettivamente alla coerente e consequenziale applicazione della propria “linea politica”. Sono decenni che assistiamo al susseguirsi di formule che partoriscono maggioranze e governi che si dichiarano in discontinuità con i loro predecessori, salvo poi, all’atto pratico, finire per somigliargli. Finito il secolo degli scontri ideologici e dei blocchi contrapposti, è sparito, già da tempo, anche quello di qualsivoglia orientamento verso una specifica cultura di governo che si possa distinguere nitidamente, dietro gli ormai vuoti simulacri denominati “Destra, Centro e Sinistra”. Etichette appiccicate alla meno peggio a ditte personalizzate chiamate “partiti” che servono a distinguere i competitori, non certo ad identificare una differenza tra diversi pensieri e convincimenti. Se così non fosse stato la cosiddetta “seconda repubblica” non si sarebbe dissolta dopo qualche lustro e non si sarebbe popolata di qualunquisti e di arruffapopoli. Non avrebbe abbandonato, cioè, la cultura della diversità e del confronto per confluire nell’elogio dell’ignoranza. Un vortice costruito sul moralismo di basso conio: quello della falsa rivoluzione popolare tacitata con i redditi di cittadinanza, propalata attraverso quella cloaca massima in cui spesso si trasformano i social. Ora che il Termidoro ha posto fine alla caccia insensata ai politici da parte del potere togato, intoccabile ed irresponsabile, al populismo becero e supponente, ecco che al timone della nazione è arrivata una giovane pulzella d’Orléans che ha promesso di ridare onore al governo politico. Una Giovanna d’Arco intenzionata a condurre al riscatto la borghesia italiana, il ceto medio produttivo e le partite IVA, affrancandoli dalla burocrazia e dallo statalismo pervasivo ed asfissiante di un sistema dedito alla dissipazione del pubblico danaro ed all’accumulo del debito statale come leva di governo. E tuttavia la nostra eroina è inciampata sulla prima finanziaria dissipando le certezze sul liberalismo politico e del ritorno al libero mercato di concorrenza, quello del merito e dell’efficienza, della lotta alla povertà e non alla ricchezza. E’ caduta sostanzialmente su un ossimoro, una parola dagli effetti magici ancorché abusata, negli ultimi decenni, un po’ da tutti i governanti. “Giustizia sociale” è il motto mirabolante che giustifica ed incatena ogni redistribuzione della ricchezza, che comporta in interferenza nelle regole del mercato. Un’elargizione benemerita che gratifica i ceti sociali e le clientele politiche, i blocchi elettorali che hanno sostenuto i nuovi inquilini di Palazzo Chigi. Siamo quindi punto e a capo. Il presidente del Consiglio ha inteso giustificare la “sua” legge di Bilancio (e la trentina di miliardi di spesa che essa comporta quasi tutti a debito ), con quella parola eufonica e promettente: la necessità della “giustizia sociale”, invocata come salvacondotto per attraversare i vecchi ponti della politica politicante. Qualcuno dovrebbe però avvertirla che una cosa giusta è tale in se stessa e non ha bisogno, dunque, di aggettivazioni. Qualcuno potrebbe spiegarle che la giustizia sociale può definirsi l’etica della tribù quella, per intenderci, che agevola i gruppi maggiormente incisivi sul piano del consenso. Dovrebbe avvertirla, ancora, che quella parola ha praticamente distrutto lo Stato ed il buon governo, facendo venire meno la possibilità di dare a ciascuno secondo i propri meriti e non solo secondo la rivendicazione di apodittici e spesso fantasiosi “nuovi diritti”. In questa selva sono cresciuti a dismisura lo stato imprenditore, pauperista e gabelliere, le consorterie sindacali ed un ugualitarismo che ha fatto strame di ogni criterio etico. In soldoni, per farla breve, bisognerebbe avvisare Giorgia Meloni che la rotta su cui si sta incamminando la porterà sul binario morto della politica che ripara i buchi ma non costruisce nuove strade. Bisognerebbe darle da leggere qualche buon libro di economia politica della scuola austriaca, per poter individuare i guai dello statalismo e della cultura keynesiana e, più in generale, dell’intervento dello Stato oltre i limiti fisiologici consentiti, della proliferazione della burocrazia anonima ed irresponsabile che crea difficoltà per vendere benefici. Insomma un avvertimento perché non inciampi più su di un ossimoro.