Messina (LaPresse) – All’alba di oggi, i carabinieri del comando di provinciale messinese hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare a carico di 8 soggetti (7 dei quali in carcere e 1 sottoposto agli arresti domiciliari). Sono ritenuti responsabili – a vario titolo – dei reati di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, usura. Ed anche di intestazione fittizia di beni e violazioni degli obblighi della sorveglianza speciale, tutti aggravati dal metodo mafioso.
Il provvedimento restrittivo scaturisce da una indagine avviata nell’ottobre 2014. Ha preso le mosse dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Daniele Santovito. Hanno permesso di comprovare l’operatività di una consorteria mafiosa attiva nella zona sud del capoluogo peloritano. E riconducibile al detenuto Giacomo Spartà, capo dell’omonimo Clan, egemone nel racket dell’usura e delle estorsioni a danno di commercianti ed avventori di sale scommesse, i cui proventi concorrevano ad alimentare la cassa comune della consorteria.
Un’indagine partita da tanto tempo
Sono stati provati i rapporti tra Raimondo Messina e gli appartenenti alla famiglia Spartà. La moglie del boss, in occasione della cessazione della semilibertà cui Messina era sottoposto, si è personalmente recata, accompagnata dai propri figli, a fargli visita presso la sua abitazione. Inoltre Messina ha manifestato in più occasioni esplicitamente il proprio rispetto verso Antonio Spartà, fratello del detenuto, incontrandolo spesso. Messina gestiva la cassa comune del gruppo, alla quale attingeva anche per il sostentamento dei detenuti e delle loro famiglie. La consorteria mafiosa si è costantemente dimostrata capace di interferire e di condizionare l’attività di alcuni imprenditori messinesi. Non solo imponendo assunzioni di personale indicato dai sodali, ma anche imponendo loro le scelte imprenditoriali.
Un lucroso settore di interesse dell’associazione era quello delle estorsioni a danno dei giocatori, frequentatori di alcune sale gioco cittadine controllate dalla stessa consorteria. In un caso alcuni degli odierni indagati hanno costretto il titolare di una sala scommesse a cedere loro la proprietà, a causa delle difficoltà economiche dello stesso. Pretendendo anche il pagamento di 5.000 euro, per una serie di giocate effettuate con denaro a credito delle società di scommesse. I giocatori sono stati costretti poi a pagare i debiti di gioco contratti con i gestori delle sale, venendo minacciati.
L’organizzazione aveva individuato la propria base logistica per incontrarsi nel bar Il Veliero, gestito ed amministrato da Messina, sebbene formalmente di proprietà della propria madre.